Bianca Cappello, dalla damnatio memoriae alla verità
di Paola Irene Galli Mastrodonato
Linea Edizioni, 2020
Essere intelligente, colta, vitale, bellissima e innamorata riamata, può diventare colpa capace di portare alla morte? Alla distruzione dei propri resti e quindi all’abrasione sistematica del ricordo? Infine, alla dannazione persino della memoria residua? Per una donna non si tratta di un destino infrequente. Vale per la cronaca, lo rintracciamo nella storia. Grazie al grande lavoro d’indagine documentale e di ricerca di Paola Irene Galli Mastrodonato, oggi possiamo dire di poterci confrontare senza più zone d’ombra con uno dei casi simbolo di tale destino: quello della nobildonna veneziana Bianca Cappello. Una vicenda che si colloca a cavallo tra gli anni Sessanta e Ottanta del XVI secolo. Per la precisione tra il 1563 e il 1587.
La vicenda emblematica di Bianca prende le mosse da una Venezia profondamente trasformata dalla rivoluzione urbanistica e culturale promossa dal doge Andrea Gritti, nel quindicennio 1523-38: la cosiddetta renovatio urbis. La città, ancora grande potenza marittima anche se non più egemone nel Mediterraneo e in Italia, è ricca e attraversata da inarrestabile curiosità intellettuale. La quale trova alimento nelle geniali invenzioni editoriali di Aldo Manuzio, con la diffusione ormai allargata grazie all’invenzione del “libro portatile” dei grandi classici antichi, e nell’affermazione di un nuovo gusto artistico, quello rinascimentale, che modifica prospettive e valori. Un fermento particolarmente vivo nelle case dei patrizi di governo della Serenissima, dove il neoplatonismo è la scuola di pensiero prevalente. Del resto, proprio nella cerchia di Andrea Gritti era maturato non solo il progetto di cambiare il volto alla città, ma anche l’idea di costruire sotto forma di chiesa una sorta di Tempio Pitagorico: San Francesco della Vigna, non a caso di fronte al palazzo di famiglia del doge Gritti, viene realizzata seguendo i dettami dell’Harmonia Mundi di fra Francesco Zorzi. Il guardiano francescano del vicino convento in forte odore di eresia e riscopritore della musica pitagorica.
Il Cinquecento è dunque un secolo assai vivace per gli spiriti inquieti in laguna, ma per un’adolescente restava comunque assai difficile poter anche solo afferrare di striscio qualcosa del dibattito che animava la città. Le donne, per lo più, non sapevano leggere e quindi nemmeno scrivere, venendo mantenute in un’ignoranza assai utile per renderle funzionali al solo scopo cui venivano ritenute adatte: sposarsi per generare figli legali. Valeva anche per le patrizie, in particolare direi per le patrizie, e in generale il matrimonio era considerato strumento di natura politico-economica, utile non tanto a chi lo contraeva, bensì ai clan familiari coinvolti. Sugli altari si stringevano o spezzavano alleanze, contratti, cordate d’interessi. L’amore? Assente. Il destino di Bianca Cappello, discendente da un casato tra i maggiori in quel momento in laguna, per di più bellissima è segnato. Peccato sia anche terribilmente intelligente. Il che significa che ha personalità.
Certo, stupisce oggi scoprire l’età delle sue scelte fondamentali: sedici anni. Teniamo, però, conto che allora non si era più ragazze, ma donne a ogni effetto. Si cresceva in fretta, nel Cinquecento, anche perché in genere si moriva presto. Bianca scopre l’amore. Vicino al palazzo di famiglia ha sede la filiale veneziana del fiorentino Banco Salviati. Sono sempre stati tanti gli intrecci tra le due città, centri politici entrambi al massimo livello in Italia. Talvolta amichevoli, per lo più da nemici. Forse a Venezia qualcuno si sarà pentito amaramente di aver salvato, a suo tempo, Cosimo il Vecchio de’ Medici. Il casato toscano ha avversato in ogni modo la Serenissima, sino a diventare il principale ostacolo nel suo disegno di conquistare prima Milano e poi la Romagna. In vista di quello generale dell’Italia. A Bianca tutto ciò non interessa affatto. Nemmeno gli interessi di famiglia la riguardano. La sua forte personalità pretende di guidare da sé sola la propria vita. Per niente ovvio, allora. Al Banco Salviati lavora un giovane, Piero. Esplode il sentimento. Ricambiato. Aiutato da una tata sempre presente quando Bianca chiede aiuto e consiglio. Evidentemente ammirata dal coraggio ardente della giovane donna.
La speranza è che Piero sia un Salviati. In fondo, grande famiglia fiorentina, aristocratica e ricchissima. Forse il padre della ragazza potrebbe acconsentire a nozze del genere, perché no? Anche se aveva pensato ad altro. Peccato che il cognome del giovane sia Buonaventuri. Il che ne denuncia subito l’origine popolana. Davvero, così non si può fare. Non è il solo problema. I due giovani si sono già amati. È la fine. Per Bianca si aprono le porte di un convento per ragazze nobili “disonorate”. È il momento del massimo dolore, della paura che diventa angoscia e Paola Irene Galli Mastrodonato è maestra nel rendere l’atmosfera cupa piombata all’improvviso a distruggere il sogno dei due giovani. Anche perché, le pagine del libro approfondiscono la realtà giuridica che circondava, assediandola, la vita di chiunque al tempo. È utile per capire quanti e quali passi in avanti siano stati fatti. Bianca, allora, prende in mano il proprio destino: è il momento cruciale del libro perché della vita di questa donna eccezionale. Fuggirà insieme a Piero. Dove? A Firenze.
Tralascio il racconto delle vicende della coppia, rimandando alle splendide pagine del volume. Non sfuggirà neppure al lettore più distratto il carattere risoluto di Bianca, capace di affrontare qualunque fatica e privazione per affermare il diritto inalienabile a scegliere in completa autonomia. Ne ha gli strumenti intellettuali, è vero, ma lo è almeno altrettanto che il carattere se l’è forgiato da sola. La ragione principale per cui ripercorrerne la vicenda è istruttivo, oltre che affascinante, per le continue svolte impreviste impresse dal caso alla sua esistenza. Solo un accenno per spiegare: Bianca Cappello fugge da Venezia inseguita dai familiari e dallo stesso Consiglio di Dieci, mobilitato dal padre, assieme al giovane amore della sua vita. Raggiungerà in maniera rocambolesca Firenze per finire ad aiutare la suocera nelle faccende domestiche e partorire una figlia. Lei, che una cucina non doveva mai averla vista. Per amore. Il quale non si spegne neppure quando il suo bel Piero si trova un’amante, dal significativo nome di Cassandra.
Non è affatto finita qui. Sopravvive, lei straniera e con una figlia a cui badare, all’omicidio del marito, diventando granduchessa di Toscana in virtù del matrimonio con Francesco I de’ Medici. Al quale darà un figlio teorico erede: Don Antonio de’ Medici. Dalla polvere alla gloria, si potrebbe dire. Misera fuggitiva inseguita dalla maledizione familiare, si trasforma per nemesi d’amore in vezzeggiata figlia prediletta, anche della repubblica Serenissima, ai cui reggitori pare non sfuggire quale vantaggio potrebbe derivare dall’avere una sua nobildonna ai vertici di Firenze. Padrona delle chiavi del cuore del principe. Domina della vita intellettuale della città. Volitiva e determinata. E sempre incredibilmente bella, come ogni ritratto a noi arrivato di lei conferma senza possibilità di dubbio. Tutte ragioni che trasformeranno la ritrovata gioia esistenziale nella tragedia finale. Il cui racconto, con il suo ritmo incalzante, lasciamo al piacere del lettore.
Un libro che si divora, appassionante come un giallo, avvincente quale può essere un grande romanzo eppure serio e documentato perché è un saggio storico. Merito anche di una scrittura agile e controllata, che non s’impone mai alla vicenda ma l’accompagna con delicata partecipazione emotiva: quella che forse Bianca Cappello avrebbe voluto ricevere durante la sua tormentata esistenza e le fu, invece, negata anche dopo morta. Un grande storico italiano, anche di recente, l’ha bollata come “una puttana”. Direi che di strada ne abbiamo ancora tanta da fare.
Buona lettura, ne vale proprio la pena…