Se n’è parlato tanto. Lo si è aspettato a lungo. Poi, quando finalmente è stato illustrato da Mario Draghi ed è diventato di pubblico dominio se ne sono potuti verificare i contenuti. Risultato? Qualche articolo di giornale, una manciata di commenti su televisioni e social e tutto è finito lì. Come mai? Visto che è disponibile in Rete gratuitamente e senza alcun problema vale la pena leggerlo. Darò per scontato che chi si avvicina a questo articolo l’abbia fatto o la farà, perché niente può sostituire l’esperienza diretta e personale del documento. Dunque, l’invito è: dategli un’occhiata.
Non c’è dubbio, a prima vista si resta delusi. Si potrebbe dire che la Montagna abbia partorito il classico topolino. In effetti, chi si aspettava qualche geniale intuizione si deve tenere la voglia. L’analisi di Mario Draghi è senz’altro condivisibile, ma ripete passo dopo passo quelle di tanti prima di lui. I problemi dell’Europa sono ben noti e sempre gli stessi. Anche nel confronto con i Grandi che si stanno affrontando nell’arena geopolitica mondiale, i due colossi USA e Cina tanto per cominciare, ripete in sostanza riflessioni ormai gravate dalle ragnatele del tempo. Neppure quando affronta il tema dell’innovazione tecnologica, della Rivoluzione dell’Intelligenza Artificiale, ci racconta qualcosa che già non sia noto. L’Europa è in affanno. L’Europa è troppo burocratizzata. L’Europa accumula ogni giorno ulteriori ritardi perché è frantumata, divisa e chiusa all’interno, ciascun soggetto dedito solo al proprio orticello nazionale. Avete presente le parole dell’Inno di Mameli? Ve le ricordo, si tratta della seconda strofa:
Noi fummo da secoli
Calpestati e derisi
Perché non siamo popolo,
Perché siamo divisi.
Raccolgaci un’unica
Bandiera, una speme:
Di fonderci insieme
Già l’ora chiamò.
Bene, volendo fare una sintesi estrema, il cuore del Rapporto Draghi è questo. L’Europa, come l’Italia di Mameli, ha il problema di non essere “popolo” e se vogliamo sopravvivere abbiamo un’unica via: “fonderci insieme,” perché “già l’ora chiamò.” Non c’è più tempo, il momento è adesso.
Sia chiaro, personalmente condivido. L’Europa non può continuare a essere faticoso assemblaggio di Stati in tutto indipendenti salvo per quanto riescano a imporre agli altri i propri interessi. Il recente caso Unicredit-Commerzbank insegna. L’Unione ha bisogno di regole comuni che valgano per tutti. Draghi lo dice, del resto. E prima di lui una lunga schiera di osservatori, più o meno neutrali. Al momento non è neppure un vero Mercato Unico: troppe norme peculiari a ogni singolo ordinamento impediscono reale uniformità. Il caso Unicredit-Commerzbank insegna. In qualunque campo. Senza dilungarci troppo, la ricetta per guarire in sé è semplice: l’Europa deve diventare Stato. “Uno” stato e smettere di essere accozzaglia di realtà nazionali. Difficile? Non c’è dubbio. Tanto per cominciare a causa del problema dei problemi, di cui Draghi per altro si dimentica o lascia da parte fate voi, e cioè l’assenza di una lingua comune. La più parlata a livello generale, ironia della sorte, è quella ufficiale di un piccolo paese dell’Unione e cioè l’Irlanda. Dove, beffa ulteriore, è stata imposta con la forza delle armi e della scolarizzazione da un invasore. Si tratta dell’inglese, giusto per capirci.
D’altronde come si fa a scegliere, così per dire, il tedesco? Eppure, se sommiamo gli abitanti della Germania a quelli dell’Austria e a varie minoranze germanofone sparse qua e là, è senz’altro numericamente la più diffusa. A differenza del francese, che oltre ai nativi dell’Esagono può aggiungere appena i valloni belgi e un po’ di lussemburghesi. Restano fuori un certo quantitativo di svizzeri, ma in fondo è meglio così perché i germanofoni della Confederazione sposterebbero ancora la bilancia a vantaggio di Berlino e dintorni. L’italiano è appena poco meno diffuso del francese e senz’altro più dello spagnolo, visto che questo è dominante, per ragioni migratorio-militari, nel Continente americano. Discorso analogo per il portoghese. Quanto al resto, i numeri parlano da soli.
L’assenza di una lingua comune, anche se appannaggio di una minoranza culturalmente evoluta come è stato il caso dell’italiano nella Penisola dell’Ottocento, rappresenta la vera debolezza strutturale di un’Europa che, invece, sotto quasi ogni altro profilo potrebbe anche procedere spedita. Certo, bisognerebbe lavorare comunque molto, ma in definitiva non è nulla di più complicato di quanto si trovarono ad affrontare i governi nazionali italiani del primo quinquennio di storia unitaria. Anzi, da questo punto di vista, i quasi 70 anni passati dai Trattati di Roma, che istituirono le prime forme di cooperazione europea, ci hanno già portato “avanti”, per così dire.
Draghi da banchiere, natura che ritorna sempre fuori, punta sul “debito comune” per risolvere buona parte delle difficoltà. È lo stesso approccio che ha portato a spingere per l’adozione di una sola moneta prima che la vita quotidiana degli stati membri fosse davvero allineata in modo soddisfacente. È un altro dei difetti dell’Europa: creatura dalle radici “finanziarie” che impediscono la costruzione di un vero Stato unitario. Perché? La risposta è nella Storia: esiste sempre prima un Esercito da cui deriva lo Stato. Perché questo, lo Stato, nasce per delimitare lo spazio entro cui un’organizzazione strutturata nell’uso della forza riesce a imporre il proprio monopolio. Il quale soltanto in seguito riceve giustificazioni etiche e codificazione giuridica. Spada, altare, legge: le basi dello Stato sono poste.
Prima che qualcuno s’indigni, ricordo il pensiero di Georges Sorel, Max Weber e da ultimo di Charles Tilly. Il Novecento sociologico e filosofico, senza voler tornare troppo indietro nel tempo, è percorso dalla volontà di spiegare come nasca lo Stato e una delle correnti di maggiore spessore, che ho riassunto per brevità in questi tre nomi, la riconduce alla questione dell’uso della forza. C’è poco da obiettare in materia, si parla di “stati falliti” nei casi in cui le autorità cosiddette legittime non riescano più a imporsi sulle volontà di gruppi e singoli capaci di fare un po’ ognuno come gli pare. E che, a loro volta, sono in grado d’imporre militarmente le proprie regole alle comunità del territorio che controllano. I casi Libano con Hezbollah, della Somalia e della Libia tribalizzate fanno scuola, ma non sono certo gli unici. Scomodare fumosi “contratti sociali”, da Loche a Rosseau per esempio, o l’esistenza ancora più impalpabile di una misteriosa Grundnorm, norma fondamentale, quale radice di ogni ordinamento giuridico mi sembra più che altro una fuga intellettuale dalla realtà: la Storia ci racconta che chi ha la forza la usa e dopo aver vinto stabilisce pure che ciò è stato giusto, scomodando la morale, e opportuno, e quindi politicamente giustificato.
È successo sempre così e continua ad accadere ovunque sul Pianeta Terra. Modificare i termini dell’equazione non ha mai portato bene a nessuno. Infatti, l’Europa Unita non viene alla luce e continua a essere in dolorosa gestazione, come Draghi ci ricorda. Avrebbe dovuto fare il passo successivo, però. La vera tragedia dell’Europa, infatti, è stato il fallimento della CED, il 30 agosto 1954. Solo la costituzione di Forze Armate comuni avrebbe permesso, attraverso la necessità di avere una linea di comando unica da sottoporre a un solo governo, l’avviarsi di un processo di unificazione sempre più profondo. Il fucile prima della moneta, insomma, noi abbiamo fatto l’opposto. Il risultato è sotto gli occhi tutti. Draghi sposta l’attenzione sul debito: anche questo è un falso obbiettivo. Non esistono scorciatoie, ma solo lunghi e tortuosi sentieri. I quali, forse, alla fine non portano nemmeno alla meta.
Il Rapporto Draghi è di grande interesse perché mostra tutta la timidezza tipica dell’uomo di finanza nell’affrontare il nodo centrale della costituzione di uno Stato, federale ritengo. La moneta ce l’abbiamo, ma è stata una falsa è partenza. Questo è quanto manca nel Rapporto: la consapevolezza della gerarchia dei passi necessari per arrivare a definire e quindi a stabilire uno Stato. Di qualunque tipo. Non si tratta di una sua manchevolezza personale di Draghi, lo dico subito. Perché è l’equivoco di base dell’intera costruzione europea e, in generale, di tante riflessioni circa la natura della forma-Stato. Bisogna essere chiari, invece, in materia e una classe politica con visione del futuro basata su adeguata conoscenza del passato dovrebbe averne coscienza per sapere dove andare: ho l’impressione che siamo parecchio distanti.