Berlino 1961 oggi è a Kiev: facile a dirsi, complicato a tradursi in azione. Soprattutto, cosa significa? La retorica è sempre in agguato e il precedente, risolto a favore di chi resisteva in maniera poco sanguinosa, può portare su strade sbagliate. Implicazioni sul campo a parte, però, vale la pena interrogarsi su cosa significhi questa affermazione. Non è, infatti, di poco conto e può aiutarci a riflettere, finalmente, su chi siamo e chi vogliamo diventare.
La prima osservazione riporta a quanto detto e ripetuto dal presidente ucraino Zelensky, il quale ha sostenuto che l’Ucraina, oggi, sta combattendo per sé stessa, l’Europa e l’Occidente in generale. Frase a effetto, non c’è dubbio, ma proviamo a esaminarla con attenzione, partendo però dal punto di vista russo. Putin, il patriarca di Mosca Kirill, il cerchio di chi conta al Cremlino hanno in blocco giustificato l’invasione perché diretta ad allontanare dai propri confini una minaccia mortale. Quale? La questione dei vettori nucleari della Nato eventualmente piazzati a poca strada da Mosca fa sorridere. Già oggi, dislocati dove sono, possono colpire senza difficoltò e lo stesso vale per gli aerei. È Mosca, oltretutto, ad avere introdotto in servizio per prima i missili ipersonici, vanto della forza strategica russa. È stato, però, Kirill, nel famoso sermone in cui si è scagliato contro il predominio a Kiev di una presunta lobby gay, a rivelare la vera natura dello scontro in atto. Il quale non ha premesse militari e neppure economiche, visto che i russi minacciando l’Europa attaccano in definitiva il loro miglior cliente. Per meglio dire, non solo queste.
In realtà la minaccia percepita a Mosca investe l’intero spettro della quotidianità, vale a dire la mentalità suscettibile di diventare stile di vita, giusto per usare la definizione di cultura data a suo tempo dallo storico tedesco-americano Georg Mosse. I nazi-gay al potere a Kiev, secondo la vulgata Putin-Kirill, rischiano d’infettare l’intera Santa Russia. Virus tra virus, peggiore del Sars-Covid-19. Non per niente Putin mette da tempo sotto pressione tutto quanto sappia troppo di Occidente. Il vero responsabile ai suoi occhi della sconfitta dell’URSS nella Terza Guerra Mondiale più nota come Guerra Fredda, con la conseguente dissoluzione del Patto di Varsavia, prima, e dello stesso stato sovietico, poi. Da lui definita la peggiore catastrofe del XX secolo. Ciò che non era riuscito ai nazisti, quelli veri, era accaduto per colpa della nefasta influenza dei subdoli valori occidentali. Ed è su questa base comune, l’anti-occidentalismo, che si sono incontrati Putin-Xi Jinping e una vasta galleria di personaggi al potere oggi in diverse parti del mondo, dall’India all’Arabia, dal Pakistan al Messico, dal Venezuela al Centrafrica. Da un punto di vista demografico, la maggior parte del Pianeta.
È un dato su cui riflettere. Perché tutti insieme “pesano” molto meno, invece, su quello economico, finanziario, militare. Come mai? Perché la cultura egemone è quella dell’Occidente, suoi i valori ai quali tutti hanno, prima o poi, cercato di uniformarsi. A volte per scelta, molte altre per forza. Senza riuscirci, perché provengono da storie diverse e sono portatrici di culture in sostanza antagoniste a quella occidentale. La battaglia nelle pianure ucraine, dunque, non riguarda soltanto i carri armati e gli uomini, ma i valori fondanti individui e comunità.
Su tale terreno s’innestano le costanti geopolitiche di lungo periodo, le quali portano ogni erede di Pietro I il Grande a cercare di raggiungere lo sbocco sui mari caldi, in prima battuta, quindi su quelli aperti alla navigazione oceanica. Perché altrimenti scatta la sindrome da accerchiamento, in quanto il più vasto stato del Mondo, sistemato proprio al Centro del Pianeta, l’Heartland di Mackinder, dotato dal caso della più grande quantità di materie prime e risorse naturali, scopre che chi controlla il mare lo può strangolare. Allora, il vero Dominio della Terra finisce nelle mani di chi è in grado di controllare le rotte marittime a lunga distanza, grazie a flotte numerose, di qualità e in grado di appoggiarsi a una rete di basi navali adeguate. Cioè ai signori del Rimland di Spykman, la fascia costiera che circonda l’Heartland. Nell’eterno scontro tra Imperi di terra e di Mare, d’altronde, la storia ha sempre premiato i secondi. È il grande dilemma che Putin condivide con Xi Jinping.
La Cina, il convitato di pietra della Guerra Ucraina. Il paese che ha avuto lo sviluppo economico più spettacolare, che dispone di grandi risorse finanziarie, di un ottimo livello tecnologico, della maggiore flotta militare in assoluto, 400 unità contro le 300 degli USA, ma che si trova sotto lo scacco della Prima Catena di Isole, interamente sotto controllo americano al pari delle strozzature da cui transitano le arterie del commercio mondiale. Ovvero sia del Motore del Mondo. I due giganti dell’Eurasia, dunque, sono alleati naturali. L’asse tra gli Imperi di Terra, d’altronde, era stato vagheggiato da uno dei fondatori della geopolitica, il tedesco Haushofer, inventore del concetto di lebensraum, lo “spazio vitale”, riversatosi per intero nel Mein Kampf di Hitler e quindi nell’espansionismo tedesco del periodo nazista. Non per caso, Haushofer fu favorevole all’alleanza Stalin-Hitler e fermamente contrario all’attacco all’Unione Sovietica. Non era Mosca il “nemico”, bensì Londra e Washington: con l’URSS, altro Impero di Terra si poteva e doveva trovare un’intesa per porre fine all’egemonia dei due Imperi di Mare, britannico e americano.
Haushofer, dunque. È un richiamo necessario perché è evidente che la saldatura d’interessi euroasiatici si può oggi perseguire, partendo da Mosca, anche verso Oriente. La Cina non è più l’anello debole del gruppo delle grandi potenze. Anzi. In più condivide in pieno la storica ansia russa per un sicuro e non disputabile accesso alle rotte oceaniche. I due partner si completano alla perfezione: agli occhi di Putin, la forza militare della Russia combinata con quella economica della Cina possono avere la meglio sull’Occidente, sia per il declino degli USA, che per le divisioni che minano da sempre l’Europa. Il momento è adesso.
Lo è anche per una ragione un po’ passata sotto silenzio. Da tempo Xi Jinping va proclamando la superiorità delle cosiddette democrature o democrazie autoritarie nell’affrontare le sfide della complessità contemporanea. È un dato culturale. Contrappone il dinamismo delle prime alla decadente staticità delle seconde, che hanno inanellato una serie di sconfitte politico-militari, dall’Iraq alla Siria, dalla Somalia all’Afghanistan, e non riescono a uscire dalle secche della stagnazione economica. La forma-democratura è più funzionale alle potenze emergenti perché si nutre della tradizione culturale di queste. In Cina è il confucianesimo, in Russia l’eredità zaristo-sovietica, altrove sfrutta altre eredità. Tutte hanno in comune il rifiuto del modello occidentale della democrazia imperniata sui valori del razionalismo laico-illuminista. Se la Repubblica Popolare vuole festeggiare i 100 anni dalla sua fondazione, accadrà nel 2049, essendo divenuta la potenza egemone sul Pianeta, per riuscirci deve diventare un gigante economico, militare, politico e culturale. Ovvio che tutto ciò, alla lunga, la porterà a collidere con la Russia, ma non dobbiamo dimenticarci che Mosca è sì seduta su 6.000 testate nucleari ma ha le dimensioni economico-finanziarie della Spagna. E, salvo errori, a nessuno dalle parti di Madrid è ancora venuto in mente di rinverdire i fasti dell’“Impero su cui non tramonta mai il sole”.
Per il momento, comunque, i comuni interessi portano Russia, Cina, Iran, Arabia, Turchia, India, Pakistan e tutti quegli stati dove la democratura è modello vincente a volersi liberare una volta per sempre dall’egemonia dell’Occidente. Ognuno ha il suo domani, che per Xi Jinping è il “Secolo cinese” dopo quello americano, a sua volta succeduto ai quattro secoli europei. Per Putin è una rinascita della Grande Russia. Per altri, sogni e visioni diverse. Il problema è che per ognuno il primo passo è spazzare via l’esistente. Del quale, con buona pace dei vari Marco Travaglio, Giulietto Chiesa, padre Zanotelli, pacifisti a oltranza e seguaci di Emergency, noi, intendo l’Italia prima ancora dell’Europa intera, siamo al cento per cento parte. Quindi, per tutti costoro, siamo i nemici da sconfiggere. Possibilmente, ridurre all’impotenza, magari anche miserabili mendichi. È una sorta di vendetta globale, dal rancore alimentato dalla storia. Cosa vogliamo fare?
È pertanto illusorio e persino ridicolo l’atteggiamento di chi vorrebbe “chiamarsi fuori”, sistemandosi nella comoda posizione dell’osservatore e dell’arbitro: non siamo arbitri, ma giocatori e la nostra squadra o vince o perde, perché il pareggio non è previsto dalla storia. Quindi, oggi in Ucraina, nessuna neutralità è possibile: in gioco c’è la sopravvivenza di un’intera cultura forgiata nei millenni, le cui radici affondano nelle Acropoli di Atene e Roma e da qui si sono allargate fino ad arrivare ovunque, cambiando il Mondo. Si tratta della posta in gioco: non è Mariupol e nemmeno Kiev, è l’Occidente in quanto modello esistenziale egemone sulla Terra. Il motivo per cui oggi mi schiero senza dubbio alcuno: con l’Ucraina.