“É tutto talk-show, bellezza!” Non c’è niente da fare, si tratta del modello vincente, ormai: non importa cosa si dica, men che meno chi lo dica, basta dirlo. Meglio se “grattando la pancia” della cosiddetta Opinione Pubblica, a cominciare dai suoi pregiudizi profondi, lisciando il pelo a quelle idee che, in genere, trovano spazio al bancone di un bar, magari dopo numerosi spritz. Perché meravigliarsi, del resto, il “modello Vannacci” fa scuola e i Parlamenti, nazionali ed europeo, pullulano di esponenti regolarmente eletti che questo fanno di mestiere. Piuttosto bene e ancora meglio retribuiti, come noto. L’ineffabile generale, del resto, dalla carriera fin lì prodigiosa all’improvviso stroncata da quanto di oscuro successo a Mosca, è pure riuscito a vendere centinaia di migliaia di copie di un libro, mi riferisco a Il Mondo al Contrario inizialmente autoprodotto via Amazon: è perfino sgrammaticato e dalla sintassi da rivedere e comunque sempre faticosa. Un testo farraginoso, che mai avrebbe superato il vaglio del più accondiscendente degli editor, intanto per ragioni tecniche. E tralasciamo i contenuti, già definirli “discutibili” è generoso.

Tutti si sentono autorizzati a parlare di tutto: non è democrazia, perché almeno informarsi, sarebbe meglio studiare, dovrebbe rappresentare il pre-requisito indispensabile prima di scrivere e intervenire. Su qualsiasi argomento. Non basta sostenere beffardamente, “è la mia opinione”. Nei talk-show si usa dire così, purtroppo. Invece è sbagliato: solo le opinioni formate sul campo del Sapere meritano attenzione. Le altre sono vano chiacchiericcio. Tutto ciò vale in modo particolare per quanti pretendono di svolgere analisi socio-psicologiche sui comportamenti di singoli e gruppi, tranciando giudizi sulle motivazioni dei comportamenti individuali e collettivi, a volte persino di massa. Etichettarli come meri fenomeni di moda, che dimostrano solo crisi identitarie, insicurezze profonde, tentativi di appropiarsi di elementi culturali estranei nel tentativo di forgiarsi una personalità fittizia è la comoda via per non capire nulla. Fosse solo così, sarebbe facile comprendere i fenomeni sociali e intervenire su quelli di particolare impatto sulla vita quotidiana di tutti. Invece, la faccenda, al solito, è complessa.

Parliamo del tatuaggio, quindi. Intanto, cos’è. La mia definizione è questa (in calce all’articolo la bibliografia sulla quale è maturata): arte di imprimere disegni permanenti sulla pelle. Pratica antica e universale che attraversa millenni e continenti, raccontando storie di identità, appartenenza e bellezza.

Le origini. I tatuaggi più antichi conosciuti risalgono a oltre 5000 anni fa. L’esempio più famoso è Ötzi, l’Uomo del Similaun, una mummia del 3300 p.E.C. (prima dell’Era Comune, che preferisco al tradizionale a.C.) scoperta sulle Alpi. Il suo corpo presenta circa 61 tatuaggi a base di cenere, probabilmente a scopo terapeutico o rituale. Questi segni suggeriscono che il tatuaggio fosse già una pratica comune nell’età del rame. Nell’Antico Egitto, i tatuaggi erano diffusi soprattutto tra le donne. Le mummie femminili risalenti al 2000 p.E.C. mostrano disegni decorativi, spesso legati a pratiche magiche o religiose. Nel Medioriente antico, il tatuaggio poteva indicare l’appartenenza a un gruppo tribale o servire come marchio di schiavitù. Uso particolare del mondo greco e romano.

In Polinesia. Le culture polinesiane hanno perfezionato il tatuaggio trasformandolo in una forma d’arte complessa. Il termine “tatuaggio” deriva proprio dalla parola polinesiana tatau. Nelle isole Samoa, a Tahiti e in Nuova Zelanda, raccontava la storia personale di chi lo portava: genealogia, rango sociale, conquiste e responsabilità. I tatuaggi Māori, chiamati moko, decoravano il viso e il corpo con intricati motivi.

Asia. Qui il tatuaggio ha assunto significati spirituali. In Giappone, a partire dal periodo Jōmon, 10.000 p.E.C., il tatuaggio era praticato per scopi rituali. Durante l’epoca Edo (1603-1868), l’irezumi divenne una forma d’arte straordinaria, associata inizialmente ai fuorilegge e ai samurai, ma in seguito celebrata per la sua bellezza. In Thailandia, il tatuaggio sacro Sak Yant è realizzato da monaci buddisti per protezione e fortuna.

Americhe. Tra le popolazioni native americane, il tatuaggio aveva significati rituali e religiosi. Gli Inuit usavano tatuaggi facciali per segnare eventi di vita significativi. In Sud America, le antiche civiltà come quella dei Moche utilizzavano i tatuaggi per identificare guerrieri e sacerdoti.

Europa Antica e Medievale. Celti e Pitti, così chiamati proprio per questo dai Romani e antiche popolazioni delle isole britanniche, decoravano i loro corpi con disegni intrisi di simbolismo magico. Tuttavia, con l’avvento del cristianesimo, il tatuaggio fu spesso condannato come una pratica pagana e scomparve gradualmente fino al divieto dell’imperatore Costantino il Grande. Durante il Medioevo, però, in alcune aree cristiane, come la Terra Santa e l’Egitto, il tatuaggio fu tollerato o persino praticato in ambiti specifici. I cristiani copti, ad esempio, si tatuavano simboli religiosi, come croci, per manifestare la loro fede. Secondo tale tradizione, i tatuaggi religiosi tra i pellegrini erano comuni nel Medio Oriente come forma di devozione o identificazione cristiana. Alcuni tatuaggi fungevano da protezione spirituale o amuleti, in linea con una credenza diffusa nell’epoca. Non ci sono prove, invece, che tale pratica si fosse diffusa anche tra i monaci degli ordini cavallereschi, a cominciare da quello dei Templari, spesso chiamati in causa.

Rinascita del tatuaggio. Il tatuaggio riapparve in Europa grazie ai marinai che riportarono la pratica dai loro viaggi nelle isole del Pacifico nel XVIII secolo. Gli esploratori come James Cook raccontarono dei tatuaggi polinesiani, suscitando fascino e curiosità. Nel XIX secolo, il tatuaggio iniziò a diffondersi tra i nobili europei, diventando un simbolo di esclusività. Con l’invenzione della macchina per tatuaggi nel 1891 da parte di Samuel O’Reilly, il tatuaggio divenne accessibile e popolare.

Oggi. Nel XXI secolo, il tatuaggio è riconosciuto come una forma d’arte legittima. Artisti di fama mondiale creano opere personalizzate su pelle, e i tatuaggi sono un mezzo per esprimere identità, appartenenza e stile personale. Grazie ai progressi tecnologici, i colori e le tecniche sono sempre più sofisticati, ampliando le possibilità artistiche. Vero è che per alcuni è un segno di ribellione, per altri una celebrazione della propria unicità. Rimane comunque una testimonianza della creatività umana e del bisogno universale di raccontare storie attraverso il corpo.

Per concludere, una breve bibliografia sull’argomento:

Caplan, Jane (cur.) 2000, Written on the Body: The Tattoo in European and American History, Princeton, Princeton University Press. Saggio accademico che esplora il tatuaggio nella storia occidentale, concentrandosi su Europa e Stati Uniti.

Castellani, Alessandra, 2014, Storia sociale dei tatuaggi, Roma, Donzelli. Saggio sociologico di grande qualità e facile lettura.

DeMello, Margo, 2000,  Bodies of Inscription: A Cultural History of the Modern Tattoo Community, North Carolina, Duke University Press. Analisi sociologica e culturale della rinascita del tatuaggio nel mondo moderno.

Fleming, Colin, 2011, «The Religious Tattoo: A Historical Study of Christian Tattoos,» online al sito Journal of Religious History. Articolo accademico che esplora il ruolo dei tatuaggi tra i primi cristiani e altre culture religiose.

Gilbert, Steve, 2000,  Tattoo History: A Source Book, New York, Simnon&Schuster-Juno Books. Una panoramica sul tatuaggio nelle diverse culture e epoche, con numerose illustrazioni e riferimenti storici.

Gnecchi Ruscone, Luisa- Guerzoni, Guido, 2024, Tatuaggio. Storie del Mediterraneo, Milano, Edizioni Sole24ORE. Catalogo della mostra cur. Da Luisa e Guido Guerzoni con la collaborazione di Jurate F. Piacenti, tenutasi al MUDEC, Museo delle Culture di Milano e chiusa il 28/07/2024.

Hambly, Wilfrid Dyson, 1925-2009,  The History of Tattooing and Its Significance, Massachusetts, Courier Corporation. Uno dei primi studi approfonditi sul tatuaggio, con attenzione particolare al dato etnografico e antropologico.

Kaeppler, Adrienne L. et al. 2005, Tattoo: Bodies, Art, and Exchange in the Pacific and the West, London, Reaktion Books, 2005. Analisi del tatuaggio nella cultura polinesiana e del suo impatto sull’arte occidentale.

Kuwahara, Makiko, 2005, Tattoo: An Anthropology, London, Bloomsbury Academic. Un’analisi antropologica del tatuaggio come pratica culturale in tutto il mondo.

Jones, Martin, 2009, Sacred Skin: The Legend of Tattooing in Egypt, Il Cairo, American University-Cairo Press. Attenzione particolare sulla tradizione dei tatuaggi religiosi tra i Copti e in altre comunità cristiane del Medio Oriente.

Macchia, Paolo e Nannizi, Maria Elisa, 2017, Sulla nostra pelle, Pisa, Pisa University Press. Ampia ricognizione in lingua italiana sulla storia, il significato e l’impatto sociale del tatuaggio.

Parry, Albert, 1933-2006, Tattoo: Secrets of a Strange Art, New York, Dover Pub. Studio sull’uso del tatuaggio come simbolo religioso e identitario in epoche antiche.

Polhemus, Ted, 1996, Tattoo and Body Art, London, Pavilion Books, 1996. Raccolta di fotografie e storie legate all’arte del tatuaggio.

Robley, Horatio Gordon, 1998, Moko, or Maori Tattooing, London, Senate, 1998 (testo di difficile reperibilità, ma altamente consigliato). Studio classico sul tatuaggio Maori e la sua importanza sociale e rituale.

Scutt, Ronnie e Gotch, Christopher, 1974, Art, Sex and Symbol: The Mystery of Tattooing, Cornwall Books (altro testo difficile da reperire ma eccellente) Esplorazione del tatuaggio nelle culture tribali, con particolare attenzione ai significati simbolici.

Turner, Darwin Porter, 2005, 1000 Tattoos, Köln, Taschen, 2005. Collezione di immagini che mostrano l’evoluzione stilistica del tatuaggio.

Wohlrab, Silke et al. 2008, Tattoo and Body Modification in Society, Berlin-New York, Springer Verlag. Studio sociologico sulla percezione e l’impatto del tatuaggio nel mondo contemporaneo.