Numero impegnativo e denso di suggestioni questo 243 della rivista Esodo. L’argomento è uno di quelli classici della riflessione filosofica occidentale di ogni tempo. Vale a dire il rapporto tra politica, fede e religione. Poli considerati interdipendenti per secoli, come ricordano gli autori dei vari articoli, ma che sono stati separati con la spada usata da Alessandro il Macedone a Gordio dal pensiero liberale e da quello illuministico di tutta Europa, per arrivare fino alle varie correnti socialiste. Semplicemente, dalla fine del Settecento in poi, si è relegato la religione nell’ambito privato del singolo o delle comunità omogenee in cui questo si trova inserito: la fede, appunto. La politica ha così acquistato completa autonomia, riguardando in sostanza chiunque in quanto arte del governo della collettività.

A dir la verità, l’aveva già sostenuto secoli prima Nicolò Macchiavelli, venendo brutalmente relegato in una sorta di girone infernale per l’apparente cinismo amorale del suo Principe: peccato che il “segretario fiorentino”, alla resa dei conti, non avesse fatto altro che limitarsi a descrivere la realtà. Senza occultarla. Ha rappresentato a lungo un caso isolato, vista l’energia impiegata da tanti nel corso tempo per cercare di rimettere al centro dell’agire politico un qualche presupposto di ordine etico: basti pensare alla “virtù” e all’“interesse generale” di rousseauiana memoria, che ritroviamo perfino tra le fila dei Cordiglieri, per non parlare del giacobino Maximilen Robesbierre con il suo Essere Supremo durante la Rivoluzione Francese e come, in definitiva, fanno in chiusura del fascicolo nei loro contributi, Carlo Bolpin, Luigi De Carlini, Paolo Naso e Brunetto Salvarani.

Vorrei cominciare proprio da questi e quindi dalla seconda parte della rivista. Trovo senz’altro meritorio, da un punto di vista etico, cercare di re-introdurre nel discorso politico delle coordinate di ordine morale. Sarebbe addirittura magnifico, come scrive Carlo Bolpin in particolare, che fosse praticabile Se vuoi la pace preparala. Se prepari la guerra la produci. Peccato che l’intera storia dell’umanità ci racconti l’opposto. Per dirla alla latina, siamo ancora alla validità dell’antico Si vis pacem, para bellum, perché se ti credono anche solo momentaneamente debole, hai la certezza di essere attaccato. Così è successo in Georgia e Ucraina per mano della Russia di Vladimir Putin e si è ripetuto il 7 ottobre 2023, argomento dell’intervento di Paolo Naso e Brunetto Salvadori, quando Hamas ha lanciato la sua offensiva contro Israele. Dispiace ricordare che l’altrettanto antico Homo homini lupus, reso così popolare nel Seicento dall’inglese Thomas Hobbes, è senz’altro più efficace nel descrivere l’avventura sul Pianeta dell’animale Uomo di qualunque affermazione contraria. Del resto, il far discendere l’origine dello Stato da una sorta di naturale sviluppo progressivo di ogni società umana, che si autolimiterebbe attraverso leggi la cui giustificazione sarebbe un’unica misteriosa «norma fondamentale» o Grundnorm, resta una teoria indimostrata, distillata da Hans Kelsen nel suo celebre Reine Rechtsehre. Sarebbe senz’altro auspicabile fosse così, ma la Storia ci consegna all’osservazione stati nati sempre in altra maniera: War Making and State Making as Origanized Crime, scrive nel 1985 Charles Tilly e a rinforzo nel 1990 aggiunge Coercion, capital and European States AD 990-1990. Secondo l’autore, l’esperienza europea dimostra come la formazione dello stato provenga dalla combinazione di forza militare e accumulazione di capitale e si sia realizzata attraverso un uso disinvolto della coercizione. In sostanza, i fondamenti sarebbero, in ordine cronologico e d’importanza, Spada-Capitale-Legge-Altare. La legge servirebbe solo a mettere ordine alla realtà prodotta dai primi due e la religione a sacralizzarla. Ipotesi basata su dati di fatto, direi, inoppugnabili.

Dopo l’ampia introduzione generale con l’intervista a Carlo Galli, Religione e politica nel contesto storico, e le precisazioni di Stefano Foglia, La religione nelle Costituzioni, Monica Simeoni, Religioni, populismi e sovranismi in Italia, e Luigi Sandri, Politica conservatrice mondo ortodosso, con Stefano Levi della Torre, Sionismo e religione, esaminano lo specifico approccio seguito dal cristianesimo, cattolico e orientale auto-qualificatasi ortodosso, e dall’ebraismo: tutti caratterizzati da una totale commistione tra politica e religione. A ben vedere, qualcosa del genere si può ritrovare ovunque, tranne che, appunto, nell’Occidente liberato dai Lumi. Se il primo pensiero corre all’Islam, dove non esiste alcuna separazione tra politica e religione e la prima, addirittura, è in sostanza ricondotta alla seconda; non c’è dubbio che anche l’Oriente dell’Induismo, come le fortune del partito dell’attuale primo ministro Modi dimostrano, si muova nell’identica direzione. Esodo, però, rimane alla dimensione giudaico-cristiana, realtà non divisibile in alcun modo: le radici ebraiche sono all’origine tanto dell’identificazione tra vertice politico e supremo sacerdozio, con questo quale unico interprete autentico della volontà divina, quanto della convinzione della propria eccezionalità, riscontrabile in tutte le varianti riformate e così forte da aver generato un autentico nazionalismo a connotazione religiosa. Gli Ebrei non sono certo gli unici a considerarsi “popolo eletto”, perché tale deriva la ritroviamo in generale negli Stati Uniti, con la teoria della missione speciale assegnata da Dio ai discendenti dei padri fondatori sbarcati dal Mayflower, ma anche, per esempio, nel nazionalismo afrikaner dei Boeri dell’Africa Meridionale: non per caso, in entrambi i casi c’entra molto il pensiero evangelico di Calvino e successori. Un dato su cui riflettere.

Anselmo Palini, La teologia della liberazione; Cristina Simonelli, Ambiguità di un detto evangelico: abitare la crisi; e Fulvio Ferrario, Pensare l’esperienza di fede cristiana, ci portano sul crinale delle esperienze alternative del cattolicesimo, chiamando in causa appunto la Teologia della Liberazione; i fondamenti evangelici, Simonelli; e l’esperienza di un teologo controverso come Dietrich Bönhoeffer per un’immersione nelle emergenze del tempo presente e del futuro prossimo, Ferrario. Il campo, dunque, non è mai solo quello della fede, di per sé dimensione individuale, bensì anche della capacità di un approccio religioso nel tentativo d’intervenire sulla realtà della politica. Le risposte dipendono sempre dalle domande e da come questo vengono poste: vero in maniera generale, lo è ancora di più nel nostro caso. Per cui si torna, chiudendo secondo un movimento circolare che ricorda l’”oscuro” Eraclio di Efeso, con la via verso il basso che equivale per quanto riguarda la meta a quella verso l’alto, all’inizio: siamo sicuri che la premessa abbia agganci solidi con la realtà?

Franco Macchi, Filosofia e teologia nella Metafisica concreta di Massimo Cacciari, si lancia in un sofisticato confronto tra la riflessione del filosofo veneziano e il pensiero di Pavel Florenskij, filosofo, matematico e soprattutto religioso russo-ortodosso. Probabilmente, l’origine di tale prospettiva è la particolare attenzione posta da entrambi gli autori sulle parole dell’evangelista Giovanni oltre che per una affermazione di Florenskij, che sembra calzare alla perfezione con l’analisi di Cacciari:

Tutto passa, ma tutto rimane. Questa è la mia sensazione più profonda: che niente si perde completamente, niente svanisce, ma si conserva in qualche modo e da qualche parte. Ciò che ha valore rimane, anche se noi cessiamo di percepirlo (Pavel Florenskij, 2000, Non dimenticatemi, 1933-1937,  Milano, Mondadori, p. 156)

Non c’è dubbio, emerga la suggestione di un’analogia, per usare un concetto cui ricorre Cacciari proprio in questo lavoro, con quanto il filosofo veneziano sostiene là dove dichiara superabile la morte, intesa come fine di ogni possibilità per qualunque essente, in quanto tra i possibili di ogni ente esisterebbe anche la possibilità dell’Impossibile. Quindi la morte può essere vinta. Florenskij, però, affidava tale missione alla Verità di Dio rivelata dalla Luce del Monte Tabor: tradizionale tema esicastico ripreso in ambito ortodosso dal pensiero di Gregorio Palamas, sviluppando un concetto e una pratica tipica del cristianesimo orientale,

Esicasta è colui che cerca di circoscrivere l’incorporeo nel corporeo (…) la cella dell’esiscasta sono i limiti stessi del suo corpo: al suo interno c’è una dimora di sapienza

Parole di Giovanni Climaco (Scala del Paradiso, XXVII/1,5.10). Come detto, le risposte dipendono dalle domande e da come queste vengono poste, senza dimenticare che, come individuato in ambito scientifico da Werner Heisenberg, l’osservatore influisce sempre sull’osservazione. Forse sarebbe più stimolante un confronto tra il pensiero di Cacciari e quello dell’ultimo Emanuele Severino, Storia, Gioia per intenderci, dove in definitiva lo snodo affrontato è lo stesso e gli strumenti cui i due pensatori si sono affidati affini. Opinione strettamente personale, comunque. Lo è meno che questo di Esodo sia un numero da leggere e meditare con calma, magari tornandoci sopra a una qualche distanza di tempo.