Niente. Lo so, la maggior parte di chi legge resterà sconcertata, ma io non devo solleticare il consenso: sono uno storico, non un politico e neppure un venditore di idee preconfezionate. Per cui ripeto e sottolineo, il cambio di amministrazione negli Stati Uniti non comporterà proprio nessun cambiamento negli indirizzi di fondo della strategia americana nel Mondo. E questo per un motivo banale e allo stesso tempo complesso. Anche negli USA, a governare davvero non sono i presidenti, che si succedono ogni quattro anni con sempre più roboanti promesse, bensì gli interessi reali, i quali sì sono permanenti e ben delineati. Gli storici e gli analisti geopolitici, sette che si aggirano come ombre per il Pianeta cercando di coglierne le vibrazioni, le chiamano “costanti di lungo periodo”. Essendo costanti è evidente che sfuggono alla volontà di modificarle di chicchessia. Affondano le radici nella geografia e nella storia, nutrendosi nel presente dell’intero spettro delle variabili introdotte nel gioco dal succedersi degli eventi. Queste rappresentano gli unici cambiamenti al loro immutabile corso. Cercherò di spiegarmi meglio.
Gli USA sono l’ultimo dei grandi imperi di mare che hanno via via dominato il Mondo. Sono succeduti a quello Britannico, Olandese, Portoghese e ai meno pervasivi Spagnolo, Veneziano, Romano, Cartaginese, Ateniese e Minoico-Cretese, giusto per rimanere nell’angolo di Pianeta che ci riguarda più da vicino. Finora solo l’Impero Mongolo tra quelli di terra ha raggiunto uno status paragonabile in termini di influenza globale. Di fatto, il Mare ha sempre comandato la Terra e per questo per due ragioni geografiche evidenti: la prima è che la superficie liquida è ben più estesa di quella solida, la seconda che quest’ultima è sostanzialmente raggruppata in tre grandi masse e cioè Eurasia, Africa e Americhe. Visto che l’Africa non è mai riuscita a esprimere una vera egemonia capace di soggiogare gli altri continenti, la contesa ha sempre riguardato Eurasia e Americhe. Con la prima a prevalere a lungo, fino a quando dopo la Seconda Guerra Mondiale non è emersa la potenza egemone a stelle e strisce. La quale, per altro, deve considerarsi una gemmazione culturale della Penisola Europea, sia per l’origine etnica della maggior parte dei suoi abitanti che per evidenti ragioni culturali. In effetti, si potrebbe dire che lo scettro imperiale è passato di mano da Londra a Washington rimanendo però all’interno dell’Anglosfera.
Gli Imperi di Mare comandano, utilizzando le loro flotte per controllare le strozzature strategiche in cui transitano le rotte su cui transita il 90% del commercio mondiale: cioè di quello che è stato definito “il motore del Mondo”. Per fare ciò, servono una Marina Mercantile di peso, una Marina Militare adeguata, oggi integrata dalla capacità di governare tutti i domini ( terra-mare-cielo-spazio-cyber-cognitivo, da cui l’espressione “multi-dominio”) e una capacità industrial-finanziaria in grado di esprimere con la loro azione combinata un efficace Potere Marittimo. In materia, Venezia ha insegnato molto a tutti: Arsenale+galee+mercato di Rialto e peso preponderante della propria moneta nelle transazioni commerciali. Sostituiamo a questi quattro fattori, cantieri navali+gruppi di portaerei+mercati regolamentati in casa e dominio del dollaro e abbiamo la situazione attuale. Non è per niente un caso, infatti, che lo sforzo congiunto dei cosiddetti Brics, il cui obiettivo è rovesciare l’Ordine Mondiale così com’è attualmente, vada nella direzione di dotarsi di una forte base industriale, in particolare nel settore navale, di gruppi di portaerei, chi può vedi la Cina, e infine di sostituire qualsiasi cosa all’egemonia del dollaro e dei mercati americani.
Se tale disegno riuscisse, l’Impero di Mare americano crollerebbe, trascinando con sé l’intera galassia di stati clientes, a vario titolo e in diversa misura beneficiari della posizione di comando dell’Impero. Tra questi, noi come Europa dell’Unione e della Nato e a maggior ragione l’Italia. Il che significherebbe restare alla mercé dei vincitori, i quali non mancano mai di sottolineare la loro voglia di rivincita storica: del resto, quando un Impero cade, chi se ne divide le spoglie non ha nessuna tendenza alla benevolenza. Se non altro perché ha subito a lungo la prepotenza altrui. Equazione ben presente nelle menti di analisti e decisori su entrambe le sponde dell’Atlantico e non per nulla è in atto un’affannosa corsa al riarmo: le pianure ucraine e il Medio Oriente ci hanno riconsegnato alla realtà della guerra tra pari e non più alle cosiddette operazioni di peacekeeping, a cui nell’ultimo quarto di secolo ci eravamo assuefatti. I conflitti armati non sono più faccende lontane e riservate a isolate realtà periferiche, sono molto vicini. Perché la loro meta è proprio casa “nostra”. Tre anni di conflitto a cavallo del Dnepr hanno messo in luce una debolezza, che non è tanto qualitativa, piano sul quale ce la possiamo giocare ancora, bensì quantitativa. Purtroppo, è noto da sempre, il “numero è potenza”. In termini di mezzi, materiali di consumo, munizioni e soprattutto soldati. Noi, l’Occidente intero a parte gli USA, ci siamo scoperti con i magazzini vuoti, le unità militari esigue, le industrie smantellate, l’impossibilità di sostituire chi dovesse cadere. Se la prima linea di difesa cedesse, non ci sarebbero semplicemente abbastanza risorse per approntarne una seconda. Ogni caduto rappresenterebbe una perdita irreparabile. Ogni carro armato, qualunque nave e aereo non avrebbe rimpiazzo.
Tutto ciò è estremamente chiaro dalle parti del Pentagono. In Europa abbiamo sempre frainteso i richiami americani a spendere di più in materia di difesa: a pochi è venuto in mente che, banalmente, gli USA ci stavano avvertendo che loro da soli non possono combattere su ogni fronte del Globo. Non ne hanno la capacità militar-industriale. Hanno bisogno di aiuto. Già oggi, le risorse americane sono stressate dalla contemporaneità dei conflitti in Ucraina e Medio Oriente, con la contestuale necessità di presidiare l’Indo-Pacifico per impedire la caduta di Taiwan: qui si produce il 90% dei microprocessori che escono dalle “fonderie” nanometriche del Pianeta e, oltretutto, lo stretto che la separa dal continente rappresenta un perno fondamentale lungo la “prima catena di isole”. Quella che strangola la piena libertà di movimento delle navi della Cina Repubblica Popolare. Sono le due ragioni per cui Pechino vuole Taipei e che rendono impraticabile l’idea stessa di lasciargliela. Esattamente come in Ucraina e in Medio Oriente, non si possono abbandonare alleati fondamentali.
Per questo non cambierà niente nella strategia americana, governata da costanti di lungo periodo che hanno prodotto ricchezza e potenza alimento dell’american way of life. Specie nella nostra epoca, dominata dalle aziende fabless come Nvidia: peccato che i chip sia necessario fabbricarli oltre che disegnarli. Pechino l’ha capito e vuole impadronirsi delle fabbriche uniche al mondo in grado di sfornarli. Infatti, Taiwan ha appena vietato a TSMC di produrre fuori dall’isola i chip a 2 nanometri. Si tratta di un’evidente misura di autodifesa, per “stimolare”, per così dire, la volontà americana e occidentale di difenderla dalle mire di conquista di Pechino. Per Washington è impossibile “rinunciare” a Taiwan, così come a Israele in Medio Oriente, ma in definitiva anche all’Ucraina, specie adesso che la frontiera della Nato si è spostata così a Oriente. In quest’ultimo caso, in gioco c’è il peso della “garanzia” di sicurezza offerta agli alleati-clientes: se viene meno, l’intero edificio securitario americano rischia di vacillare e, forse, di crollare. Trump può davvero pensare e dire quello che vuole, ma nella strategia americana non cambierà nulla. Se non a seguito di una sconfitta. Come successo all’Urss giusto 35 anni fa. Perché tanti ne ha impiegati Mosca per riprendersi. In parte. Dubito che in riva al Potomac ci sia sul serio qualcuno che voglia imitarla. Spontaneamente.