«Ho appena fondato lo Stato ebraico. Se lo dicessi oggi a voce alta, susciterei una risata generale. Forse però tra cinque anni o tra cinquanta tutti lo ricorderanno.»[1]
Theodor Herzl è con Max Nordau uno dei principali padri ideali del sionismo e il fondatore, durante il Primo Congresso Sionista tenuto a Basilea tra il 20 e il 31 agosto 1897, del Movimento Sionista. Nel 1896 aveva pubblicato Der Judenstaat un piccolo libro dal grande avvenire, perché inseriva nel dibattito politico la necessità di uno stato nazionale ebraico, questione mai più posta dall’8 agosto dell’anno 70, quando Tito Flavio Vespasiano mise fine alla resistenza del Tempio di Gerusalemme. Da allora, diaspora, cioè la dispersione degli ebrei nel mondo antico Roma e Partia in particolare, e persecuzioni erano diventate la norma. Ovunque. In particolare quando a Roma, e quindi a Costantinopoli, si era affermata una singolare variante di ebraismo passata alla storia con il nome di cristianesimo. I parenti, è noto, si combattono con maggiore accanimento degli estranei.
La novità, però, del Movimento Sionista fu di sfruttare il successo delle ideologie nazionaliste per inglobarle all’interno di una visione della Storia che collegava, senza soluzione di continuità, le varie comunità ebraiche del Mondo al passato ancestrale, per definizione mitico, rappresentato dal racconto biblico. Quindi, lo Judenstaat, a ogni effetto un moderno stato su base etnico-nazionale come lo intendeva il pensiero dell’epoca, trovava la sua allocazione, per così dire, “naturale” in Palestina: la Terra Promessa dei Giudei. È pur vero che, nel corso del tempo, furono avanzate diverse soluzioni alternative a questa, ma nessuna ebbe la capacità di superarla in fascino. Anche perché, al pari di ogni altro nazionalismo, il legame sangue-suolo era imprescindibile e il secondo, il suolo, poteva essere soltanto quello stabilito dal Mito e giustificato, nonché reso sacro, dalla Parola di Dio. Nessun altro luogo era in grado di stargli alla pari.
Agli inizi del Novecento, dunque, le basi ideologiche erano state gettate e trovavano in Europa chi fosse disposto alle istanze del Movimento Sionista. Certo, nella Palestina del tempo la percentuale di popolazione dichiaratamente ebrea era assai limitata: attorno al 10%, più o meno. Quindi residuale di fronte alla massa degli abitanti, in gran parte semiti sì, ma di religione musulmana. In realtà, gli ebrei risultavano poco più dell’altra grande minoranza religiosa presente, la cristiana, e come questa pure frazionata in molteplici sette spesso in lotta furiosa tra di loro. Un fatto, però, al quale si sarebbe potuto porre rimedio alimentando una costante migrazione in Palestina di ebrei provenienti dal resto del mondo. Il Movimento Sionista imboccò questa strada.
Il fatto che l’intero Medio o Vicino Oriente, a seconda di come lo si voglia chiamare, fosse da circa quattro secoli sotto il governo diretto della Costantinopoli ottomana, a parte lo spicchio persiano rimasto indipendente, pur offrendo delle opportunità rappresentava comunque un ostacolo. Il quale venne abbattuto dalla Grande Guerra, perché contrappose le potenze dell’Intesa, Gran Bretagna e Francia con l’aggiunta dell’Italia già vittoriosa contro l’Impero Ottomano nel 1911-1912, alla declinante fortuna militare della Mezzaluna. Il supporto tedesco rinsaldò le forze ottomane, prolungando un conflitto che altrimenti si sarebbe esaurito subito a dispetto dell’insuccesso dell’Intesa a Gallipoli. In ogni caso, Gran Bretagna e Francia, avevano messo piede direttamente nell’area tra Mediterraneo Orientale, Golfo Arabico o Persico e Mar Rosso. La celebre Dichiarazione Balfour del 31 ottobre 1917, poi inserita integralmente nel Trattato di Pace sottoscritto a Sévres il 10 agosto 1920, fu la conseguenza degli accordi tra Movimento Sionista e governo britannico: con il primo che intendeva muovere un passo avanti verso la nascita dello Judenstaat e il secondo che, invece, voleva rafforzare la propria presenza nella zona. La più ricca del Pianeta per le riserve allora scoperte del nuovo Oro Nero: il petrolio.
Il petrolio, appunto. Venutosi a sommare e sotto qualche aspetto persino a sopravanzare la naturale rilevanza geostrategica: perché la Penisola Arabica si trova collocata in una posizione chiave rispetto alle rotte trans-oceaniche passanti per Suez e lo stretto di Bab el Mandeb, ma anche alle antiche vie d’acqua che, sfruttando il passaggio di Hormuz, collegavano l’Asia all’Europa solcando l’Oceano Indiano. Il controllo del quale era indispensabile alla potenza egemone nel sub-continente indiano e cioè la Gran Bretagna: da decenni ormai impegnata nel Grande Gioco centroasiatico per mantenere e consolidare la propria posizione, emarginando ogni possibile concorrente, a cominciare dalla Russia zarista. La quale era stata sì spazzata via dalla Rivoluzione d’Ottobre 1917, ma le cui costanti di lungo periodo, si vedrà presto, resteranno inalterate: quindi, anche la spinta ai cosiddetti “mari caldi” per rompere il proprio isolamento all’interno della massa continentale euroasiatica. Chi controlla i mari, controlla il Mondo, del resto: sintesi estratta non per caso dalla lezione dei grandi Imperi marittimi oceanici del passato, Portogallo e Olanda prima ancora della stessa Gran Bretagna, ma anche dalla storia antica e medievale mediterranea, da Creta a Cartagine per finire a Venezia con il caso esemplare di Roma.
La famosa Dichiarazione Balfour del 1917, in cui il ministro degli esteri britannico considerava legittimo e desiderabile soddisfare le aspirazioni sioniste sulla Palestina, la celebre «dimora nazionale per il popolo ebraico», non fu un momentaneo cedimento casuale a conflitto ancora in corso, bensì un mattone nel disegno geopolitico britannico, teso ad assicurarsi a un tempo l’egemonia sulle risorse petrolifere della regione e il controllo delle rotte a lungo raggio da e per Suez. Nella mente di Balfour e di quanti lo sostenevano, infatti, una forte comunità ebraica in Palestina avrebbe costituito la migliore garanzia per gli interessi britannici. Gli ebrei, ritenuti più vicini alla cultura europea, e non gli arabi, verso i quali la diffidenza era massima, come ci ricorda a ogni riga The Seven Pilars of Wisdom di T. E. Lawrence, famoso come Lawrence d’Arabia.
Qualche cifra per capire: nel 1800, gli ebrei in Palestina erano valutati in 7.000, nel 1900 erano saliti a 50.000, ma già nel 1917 per effetto della migrazione sionista, Aliyah coordinata dall’Agenzia Ebraica appositamente creata, diventarono 60.000: si trattava del 10% dell’intera popolazione della Palestina ottomana. Nel 1947, al momento della proposta di partizione, erano circa 608.000, dieci volte tanto. Per contro, arabi musulmani e cristiani con l’aggiunta dei drusi nello stesso 1947 erano 1.237.000. Quindi 33% e 67% rispettivamente. La partizione assegnava il 65% del territorio al nuovo Stato d’Israele e il 35% agli arabi. Il Movimento Sionista s’impegnò allo spasimo per far passare l’idea che tale partizione, del tutto iniqua come si può facilmente capire, fosse giustificata dal diritto degli ebrei a vedersi risarciti per l’Olocausto. Tale punto di vista fece senz’altro breccia in molte coscienze, ma non fu per niente alla base delle decisioni politiche, a partire proprio dalla partizione. La quale venne piegata a logiche geostrategiche, esattamente come stava succedendo in contemporanea in India, con la divisione tra Unione Indiana e Pakistan.
La Gran Bretagna, uscita indebolita e sommersa dai debiti dalla pur vittoriosa Seconda Guerra Mondiale, con il supporto, in funzione anti-sovietica, del nuovo Impero di Mare egemone, gli USA, con le due partizioni simmetriche e la simultanea presenza militare nella Penisola arabica allargata ed economico-finanziaria in Persia/Iran, intendeva mantenere il proprio controllo tanto sulle strozzature oceaniche, choke points, che sull’Oro Nero: grazie alla presenza di alleati affidabili dislocati nelle posizioni-chiave. A questo servivano un forte Stato d’Israele sul Mediterraneo, collegato via terra con l’Egitto allora monarchia e con il Canale ancora in mano all’omonima Compagnia franco-britannica; ma anche, e questo spesso si dimentica, il Pakistan che diventava barriera all’espansionismo sovietico verso la Valle dell’Indo, grazie all’alleanza, ben nota e che sarà di lunga durata, con l’Unione Indiana. Questo e niente altro, men che meno motivazioni di ordine per così dire “morale”, produsse la nascita di Israele, e del Pakistan, e il fatto che sin dall’inizio l’Occidente variamente inteso l’abbia armato, addestrato, equipaggiato in modo tale da continuare ad avere, come ancora oggi, una schiacciante supremazia militare sulla somma di qualunque oppositore arabo ne minacciasse l’esistenza. La quale resta necessaria alla tutela degli interessi dell’egemone di turno dell’Occidente stesso. Gran Bretagna un tempo, USA dalla seconda metà del Novecento in poi. Diciamo, dell’Occidente in senso lato, così come inteso dall’Asse della Resistenza o del Male o dei Brics alla ricerca di scardinare il Dominio del Mondo da parte delle liberal-democrazie capitaliste, nella loro versione allargata che comprende Giappone, Corea del Sud, Australia, Singapore e via dicendo.
Conclusione. L’Occidente è da sempre filo-israeliano. Lo è stato per evidenti interessi strategici che niente e nessuno finora è riuscito a far venire meno. Ha fallito l’Unione Sovietica finendo per implodere a causa della velocità insostenibile della sfida e al momento ha fallito la Cina, anche se è presto per dirlo. Diciamo che gli insuccessi sono diversi. A questo punto, la parte del Mondo che vuole spezzare l’egemonia dell’Occidente, ha deciso di percorrere con maggiore decisione la via della guerra. Ucraina e offensiva di Hamas il 7 ottobre sono strettamente legate. Le cose non sono finora andate granché bene agli attaccanti, ma i conflitti sono ancora in corso. L’Occidente si è dimostrato più resiliente e determinato di quanto a Mosca, Pechino e Teheran e da qualche altra parte pensassero. Vedremo cosa succederà prossimamente. Di certo, che chiunque si scordi concetti quali diritto ed etica: sono passati cinque secoli circa da quando Macchiavelli ha illustrato con chiarezza esemplare come funziona la politica, dalla notte dei tempi a oggi. Vediamo di non fingere con noi stessi e cerchiamo di essere concreti e operativi. Anche perché, a chi non se ne fosse accorto, vorrei ricordare che l’Occidente siamo noi. Come il bottino che i vincitori vorrebbero spartirsi in caso di successo. Sempre noi, non una strana entità lontana in un Cosmo indeterminato.
[1] Theodor, Herzl (1860-1904), Primo Congresso Sionista, Basilea 29-31 agosto 1897.