Non è un numero a caso, si tratta di un Decalogo a beneficio di quanti si preoccupano della nebbia cognitiva in cui si muovono i cittadini inconsapevoli, i quali finiscono per continuare a scegliere politici e amministratori approssimativi con l’unica motivazione che rappresentano il “nuovo”: rispetto a quanti li hanno preceduti. Gli ultimi trent’anni della Storia d’Italia sono stati caratterizzati dal periodico riapparire del “nuovo”: da Berlusconi a Salvini, passando per Grillo e approdando ora a Schlein. La sola certezza dei cittadini-elettori era la spasmodica ricerca della personalità-della-provvidenza la quale, come ogni capo carismatico che si rispetti, con il suo semplice apparire avrebbe dovuto essere in grado di rovesciare la dinamica negativa della realtà. Il che, ovviamente, non è mai successo, né poteva accadere. Così il “nuovo” invecchia e stinge e viene sostituito con sorprendente rapidità da uno ulteriore. Fino a al prossimo, in una sorta di spirale senza fine. Osservare il pendolo delle fortune elettorali per verificare. Ideologie, programmi, linee politiche contano meno di niente. Scontato che i meno sprovveduti non vadano più nemmeno a votare. Da anarchico individualista potrei anche compiacermene: hanno solo smesso di scegliersi il colore delle proprie catene. Un po’ meno da disincantato osservatore del Mondo, il quale sa bene quanto Max Stirner vivesse una sua realtà onirica e sognasse una singolare Utopia persa in un oscuro domani.

Restiamo al presente, quindi, e allora serve un Decalogo. Giusto per rinverdire qualche nota tradizione. Un Decalogo è necessario per costruire qualcosa che si concentri sulle fondamenta di un edificio destinato a durare e quindi sia meno effimero dell’ennesimo entusiasmo per una diversa personalità-della-provvidenza. Proviamo a scriverlo. Per farlo, partiamo da una premessa tutta italiana: nel Bel Paese disponiamo di una tradizione di pensiero originale e ricca, purtroppo assai poco utilizzata. Mi riferisco all’esperienza di Giustizia e Libertà, la cui confluenza con altri gruppi liberalsocialisti e repubblicani diede vita nel 1942 al Partito d’Azione. In quale, nel nome e sotto il profilo ideologico, si richiamava espressamente all’omonima formazione politica fondata da Giuseppe Mazzini nel marzo del 1853, la quale si alimentava, oltre che dal suo pensiero, dalle riflessioni di Carlo Cattaneo, Carlo Pisacane e Aurelio Saffi: vale a dire il Risorgimento che avrebbe potuto essere e non fu. Purtroppo.  Senza risalire troppo indietro, il Documento fondativo del Partito d’Azione del 1942 partiva da Sette punti programmatici:

 

  • Repubblica parlamentare con divisione dei poteri;
  • Suffragio universale;
  • Regionalismo;
  • Nazionalizzazione dei grandi gruppi industriali e finanziari;
  • Terra ai contadini associati;
  • Libertà politica e sindacale;
  • Federalismo europeo.

 

Fermandoci un momento a riflettere, abbiamo già una buona parte del nostro Decalogo. Chiariamo, però, un punto preliminare: cosa intendiamo per liberalsocialismo?  Il termine entra in uso alla metà del XIX secolo per indicare il tentativo di combinare liberalismo e socialismo, riconoscendo in modo particolare che la stessa libertà dell’individuo viene messa a repentaglio quando non esistano meccanismi sociali d’intervento a tutela dei deboli e degli svantaggiati. In tal caso, la maggiore forza di pochi si trasforma nel loro arbitrio. Un dilemma presente con molta chiarezza nel maggiore ideologo del liberalismo britannico, vale a dire John Stuart Mill. Il quale già avvertiva la minaccia di un’eccesiva ingerenza delle forme collettive di aggregazione degli interessi, cioè dei partiti, nonché dello stesso Stato.

In Italia, tale esigenza fu avvertita proprio da Mazzini, ma soprattutto da Cattaneo e Pisacane, i due pensatori più originali e ricchi di spunti anche per l’attualità. Nel Novecento, venne messa al centro della propria riflessione da Carlo Rosselli, che diede alle stampe un saggio dal titolo emblematico e cioè Socialismo Liberale,  ma anche da Guido Calogero, e Aldo Capitini, tra gli autori di un Manifesto che affermava l’inscindibilità di libertà politica e giustizia sociale. Da qui proviene la democrazia liberale o liberaldemocrazia, vale a dire una forma di governo dove si cerca di risolvere l’apparente contraddizione tra diritti individuali, cuore del liberalismo, e sovranità popolare, cioè del perno della democrazia. Dal 1942 e fino allo scioglimento nel 1947 questo rappresentò l’impegno del rinato Partito d’Azione. Oggi, entrati nel Terzo decennio del Terzo millennio dell’Era Comune, dopo averne tanto parlato, assistendo alla dissoluzione per fallimento di ogni alternativa ideologica, credo sia venuto il tempo di “mettere a terra”, come si dice, quei principi. I quali, affondando le radici nelle profondità dell’Uomo, procedono sempre e Lungo I Binari Eterni Ritornano Trionfanti…

Che fare? Stabilita la base ideale o ideologica, secondo una terminologia un po’ anni Settanta del Novecento, il primo passo consiste nell’aggiornare la tabella originaria azionista: il suffragio universale, per esempio, poteva bastare nell’Ottocento, noi siamo più in là. Il concetto di diritti dell’individuo, ma anche quello di rappresentanza politica e di intervento pubblico devono subire un restauro. Il dato di fondo, comunque, mi sembra chiaro. Quello che manca davvero è lo strumento per tradurre tutto ciò in vera azione, questa sì secondo il principio mazziniano per cui il pensiero deve individuare la strada, ma questa resta inesplorata se non sussista un’organizzazione in grado di interpretare il cambiamento sociale e quindi di tradurne le spinte in scelte precise. Serve, cioè, un Partito.

Se si concorda sui principi, il liberalismo classico di Mill temperato alla luce dell’utilitarismo di Jeremy Bentham così come rifluito nelle concezioni di Mazzini, Cattaneo, Pisacane, Rosselli, Calogero, Capitini e dell’azionismo in genere, il nostro Decalogo delle idee è quasi al completo: bisogna passare alla fase operativa. Vale a dire a fondare un Partito. Non un generico soggetto politico o un movimento o una generica aggregazione di affinità, tutti termini che nascondono il cesaro-caudillismo di fondo, per cui si affida tutto a un capo e così si risolve ogni contraddizione filosofico-politica. Berlusconi in questo senso ha segnato davvero un’epoca. Niente del genere. Serve un Partito a forte connotazione ideologica, i cui valori, essendo filosoficamente fondati su un pensiero importante, non mutino con il passare delle persone. Sono queste, al contrario, a essere indifferenti all’asse portante rappresentato dal Partito stesso e dalla sua visione del presente e del domani. Un partito di questo genere risulta attrattivo per chiunque abbia in mente di non limitarsi a guardare cosa accade, ma d’intervenire in prima persona, perché, alla fine, si sente partecipe di qualcosa di non effimero.

Come prima conseguenza, il Partito così fondato non avrà MAI il nome del segretario/a del momento nel proprio simbolo. Possiederà, invece, un’organizzazione territoriale per permettere d’intercettare i sentimenti della società e ai singoli cittadini di esserci in senso fisico. Lo strumento delle cosiddette primarie aperte è solo specchietto per le allodole, una sorta di televoto in salsa politica: servono, invece, luoghi stabili di aggregazione permanente, cioè sedi decentrate riconosciute e riconoscibili. Allora sì la Rivoluzione Democratica mai avvenuta in Italia potrà alla fine essere innescata. Dal basso, cioè da dove nasce ogni vera Rivoluzione. Altrimenti siamo di fronte a una banale Presa del Potere da parte di qualche camarilla alternativa a quella in carica. Il che, non interessa affatto. Non a chi guardi a Mill, Bentham, Mazzini, Cattaneo, Pisacane, Rosselli per lo meno. Mi pare che il Decalogo sia completo.