«Riprendiamo il concetto (di guerra, Ndr) come continuazione della politica con altri mezzi e integriamolo con il suo corollario, la guerra non è semplicemente un atto politico, ma un vero strumento politico.»[1]
La Guerra d’Ucraina ha bruscamente risvegliato l’Occidente dal lungo sonno chiamato Globalizzazione, vale a dire dall’illusione che con la caduta del Muro di Berlino, novembre 1989, e la dissoluzione dell’Urss, due anni dopo, in qualche modo la Storia fosse finita e il Pianeta avviato serenamente verso la pacifica convivenza all’insegna del Pensiero unico liberal-democratico Una lettura, per altro, da tempo in crisi. I numeri, del resto, hanno o dovrebbero avere un intrinseco significato: basterebbe contare quanti conflitti armati ci sono stati nel trentennio 1991-2021 per visualizzare in modo plastico l’inconsistenza di tale prospettiva. Questo nonostante al contrario della democrazia politica il suo corollario economico, il liberismo, sembrasse aver spazzato via ogni concorrente. In particolare da quando aveva colonizzato l’ultima roccaforte comunista, la Cina, salita in breve a secondo attore strategico del Pianeta. Grazie a esso. Un evento che ha rappresentato il vero punto di svolta delle dinamiche geopolitiche mondiali.
È stato proprio il presidente Xi Jinping ad affermare l’intrinseca superiorità della particolare declinazione cinese di libero mercato più autoritarismo politico nell’affrontare la complessità del tempo presente. A cominciare dalla gestione di situazioni di crisi sanitaria, come la Pandemia da Sars-Covid-19. Il singolare incrocio di tradizione confuciana, socialismo marxista e liberismo economico è stato offerto come soluzione per le sfide in agguato. Al Mondo intero. Non c’è dubbio abbia sintetizzato il sentire comune a buona parte dei governi esistenti, i quali amministrano la maggioranza della popolazione del Pianeta. La Cina si offre oggi quale modello culturale da esportazione, per costruire una civiltà del XXI secolo non più basata sui valori e la prassi che hanno portato l’Occidente euroamericano all’egemonia mondiale. Le sconfitte nell’esportare la democrazia, in Iraq e Afghanistan, sono state interpretate quale prova dell’inesorabile declino di un modello sin lì vincente. Le spaccature esistenti nelle società occidentali, tanto in Europa che negli USA, sono diventate dimostrazioni dell’incapacità di quei valori di dare risposte all’altezza delle sfide del mondo contemporaneo.
Il messaggio è stato raccolto o almeno visto con malcelata simpatia, come detto, in molte capitali in giro per il Pianeta. In modo particolare, però, a Mosca dove ha attecchito con facilità grazie a un duplice agente moltiplicatore: la frustrazione per il perduto ruolo di superpotenza e il riemergere di una corrente di pensiero nota come eurasismo. Quanto al primo punto, è stato sottolineato più volte proprio da Vladimir Putin: il presidente russo ha definito il crollo dell’URSS «la più grande catastrofe geopolitica del XX secolo»[2], riferendosi con ogni evidenza al principale effetto di quell’evento e cioè al declassamento di Mosca a potenza regionale con arsenale atomico sovradimensionato. Non è male ricordare in questa occasione che il “peso economico” della Federazione Russa, in termini di PIL, è grosso modo equivalente a quanto esprime la Spagna. Della quale non sono note particolari ambizioni imperiali e che, comunque, non sarebbe in grado di supportarle.
È il secondo punto, allora, a venire in soccorso delle ambizioni degli inquilini del Cremlino. L’eurasismo germoglia nel gran corpo delle pianure che si estendono tra Europa e Asia e rielabora in modo originale il dato geografico di fondo. In sostanza, sostiene che tale spazio non solo saldi fisicamente gli oceani, Atlantico e Pacifico, ma anche idealmente l’Occidente con l’Oriente, diventando il luogo della sintesi culturale dei due mondi in virtù della capacità di produrre una civiltà originale e indipendente, alternativa a qualunque altra esistente. Il terreno comune con la riflessione cinese palesata da Xi Jinping è palese.
Le differenze risalgono alle specifiche storie di Cina e Russia, là dove la prima ha il confucianesimo e il passato del Celeste Impero nel suo DNA e l’altra il cristianesimo ortodosso a declinazione slava e l’Impero degli Zar nato dalla lotta contro i Mongoli dell’Orda d’Oro e i suoi eredi. A Mosca l’eurasismo ha trovato nel tempo diversi interpreti e di recente in Aleksandr Dugin, guarda caso uno dei più ascoltati consiglieri di Putin, il più radicale e risoluto degli epigoni. Tale prospettiva è innanzitutto geografica e recupera il concetto di Isola Mondo già di Mackinder, rimodellandola sulla realtà russa. Non per caso nelle parole degli eurasisti ricorre spesso il concetto di autosufficienza. La Russia non avrebbe bisogno di niente e di nessuno, perché possiede tutto. A cominciare dalla superiorità morale del proprio modello originale, fondato sugli eterni valori del mondo slavo e dell’ortodossia cristiana. Ai quali bisogna aggiungere l’eterno credito maturato nei confronti del Mondo avendo sconfitto il Nazismo. Perché nell’immaginario russo la vittoria nella Grande Guerra Patriottica è opera esclusiva di Mosca. Nessun’altro ha contribuito in alcun modo. Tali caratteristiche hanno reso la Russia vittima dell’aggressività altrui. Da ultimo di quella dell’Occidente, il cui liberalismo cosmopolita, corrotto e decadente cerca di distruggere le basi stesse dell’identità russa.
Si tratta del terreno perfetto d’incontro con la Cina di Xi Jinping percorsa da brividi di autocoscienza imperiale mescolati a malcelata rabbia vendicatrice per i torti subiti. Da qui anche la simpatia, se così vogliamo definirla, che i due colossi autoritari raccolgono un po’ ovunque: dall’India che pure è da sempre in aperta competizione con la Cina, a Brasile, Sudafrica, Arabia, per non parlare di un nemico storico dell’Occidente come l’Iran. Si tratta di giganti demografici, spesso d’importanti attori economici, in tre casi di potenze nucleari e oltre all’India parlo di Pakistan e Corea del Nord. Tutti accumunati dall’ostilità verso il Primo Mondo, sul quale gravano il passato coloniale e il presente egemonico. La convinzione diffusa in questo composito fronte è che solo la sconfitta e l’abbattimento della civiltà occidentale potrà produrre la loro liberazione, la quale si tradurrà in via automatica in quella dell’intero Pianeta. Hanno ragione o torto?
Siamo sinceri, dal loro punto di osservazione senz’altro sì: in generale, dobbiamo lasciar perdere uno dei nostri dogmi culturali più consolidati cioè che esista una verità ultima, definitiva, e perfino giusta. Non è così. Il Cosmo è una realtà complessa, fatta di continue iterazioni di sistemi a loro volta complessi e dal loro gioco continuo emergono qualità e dimensioni estranee agli organismi di partenza. Anche il singolo essere umano è costruito in questo modo e lo sono i suoi edifici sociali. Dai semplici ai più complessi, quali sono gli stati. Non esiste alcuna verità da svelare, ma un’infinita rete di rapporti da analizzare. Il panorama cambia, quindi, in modo anche radicale mutando il punto di osservazione. Quanto appare ovvio a Londra e discutibile a Berlino, può diventare inaccettabile a Mosca e Pechino. È facile confondere i propri desideri, opinioni e interessi per quanto vero ovunque. Allo stesso modo, dobbiamo capire che anche altrove cadono nello stesso autoinganno. È la “loro” verità in inesorabile rotta di collisione con la “nostra”: la conseguenza dell’inevitabile conflitto permanente in cui si trova immerso ciascuno di noi dal momento in cui viene alla luce.
Stando così le cose, diventa del tutto inutile discutere sulla superiorità di un sistema sull’altro nell’assicurare la migliore “felicità” possibile agli abitanti del Pianeta. Il dato di partenza è chiaro: noi siamo l’Occidente, nato sull’Acropoli di Atene e nel Foro di Roma e da qui dilagato a conquistare il Mondo. Basta un’occhiata alla Casa Bianca e al Campidoglio di Washington: non suggeriscono niente? L’Occidente si è dilatato al punto da comprendere al suo interno società, come la giapponese o la coreana del sud, dalle matrici completamente diverse. Questo Occidente ce lo siamo costruiti come volevamo e serviva a noi. A garantire ciò che riteniamo importante e intendiamo trasmettere al futuro. Per chi non se ne senta parte, dall’Islam agli Hindu così come alle Democrature di Cina e Russia, semplicemente un nemico. Niente di nuovo nella Storia. Il punto è che chi combatte l’Occidente, aspira semplicemente a prenderne il posto, esercitando, come sempre accade, la propria vendetta sugli sconfitti. È davvero ironico che qualcuno, in particolare qui in Italia, consideri di trovarsi in una sorta di terra di nessuno, neutrale nello scontro in atto. Deve solo sperare che l’Occidente riesca a cogliere l’ennesimo successo, perché altrimenti i vincitori faranno subito capire cosa significhi essere sconfitti. Neutrali o meno che si considerino.
[1] Carl von Clausewitz, VK, 1.11, trad. del redattore.
[2] Cfr. «Archivio», 26/04/2005, La Repubblica, consultato online 9.05.2022.