Fenomeno classico di ogni rivolta e rivolgimento politico, la distruzione dei monumenti quali simboli del nemico continua a sollevare interrogativi. Proprio perché si ripete con sconcertante regolarità. Lo vediamo in questi giorni di Black Lives Matter in particolare negli Stati Uniti e in Gran Bretagna. In misura ridotta, anche a Milano con l’attacco alla statua di Indro Montanelli e la richiesta della sua rimozione. A causa del fatto, da lui stesso rivelato, dell’aver avuto una schiava/bambina tredicenne durante la Guerra d’Etiopia, quella dei sette mesi tra il 3 ottobre 1935 e il 5 maggio 1936. A seguire c’è stato l’imbrattamento con vernice rossa del busto del generale Antonio Baldissera a Roma. Ricorda un padovano distintosi negli scontri lungo il fiume Sesia nel 1859, croce al merito militare, e poi a Custoza nl 1866, riconoscimento sovrano con lode, sempre nelle file imperiali austriache: 59° reggimento fanteria di linea Arciduca Ranieri prima e 7° battaglioni cacciatori da campo poi. Italiano dal momento della fine della dominazione asburgica del Veneto, finisce in Eritrea nel 1886. Vi resterà, riorganizzando la prima colonia italiana, circa un decennio. Al termine del quale avrà il compito di salvare il corpo di spedizione comandato dall’improvvido Oreste Barattieri, sconfitto il 1° marzo 1896 dagli Abissini ad Adua, e di condurre le operazioni di arginamento della controffensiva nemica. Il risultato fu brillante e ancora di più lo sarebbe stato se non fosse stato fermato dal governo di Francesco Crispi, ormai alla ricerca della soluzione diplomatica alla crisi.
Casi italiani a parte, tutti noi ricordiamo senz’altro l’olocausto di statue bronzee di Lenin e Marx all’indomani della caduta del Muro di Berlino. In pochi abbiamo contato le ferite inferte ai marmi della cattedrale Notre Dame et Saint Castor di Nimes dai fucili dei rivoluzionari nel 1789-90. Meno ancora presumo sappiano che la più famosa Notre-Dame-de-Paris, quale si vedeva prima dell’incendio, era il frutto di un immenso e discutibile restauro operato a metà Ottocento, dopo che lo scrittore Victor Hugo aveva dato alle stampe il romanzo omonimo, Notre-Dame de Paris, per smuovere le coscienze indifferenti al pauroso degrado del tempio, iniziato anche questo durante la Grande Rivoluzione. Sempre per ragioni anti-clericali.
Il fatto è che esiste una sorta di frenesia da parte di chi arriva al potere o nei dintorni nell’eliminare i segni del passato. Quasi si trattasse di un fuoco purificatore. Non si vede quale colpa dovrebbero poi avere gli oggetti. In realtà i vincitori di oggi considerano giusto rimuovere dal proprio orizzonte le tracce di un mondo che, a torto o a ragione, vogliono eliminare.
Nel Bel Paese, dalla Storia lunghissima e la memoria assai corta, non si contano le svolte politiche radicali e così abbiamo accumulato infiniti esempi in materia. Fa parte della psicologia umana, l’eterno ritorno dell’idea di rinascita che si consuma cercando di distruggere le scorie del passato. Non è in fondo il rito di ogni Capodanno? Certo, applicandolo su una scala diversa da quella del singolo individuo si rischia di produrre anche danni irreparabili. Gli studiosi riempiono pagine su pagine di lacrime per le distruzioni dissennate prodotte dai ricorrenti sussulti iconoclasti. Oggi non si trova nessuno disposto a derubricare a “incidente della storia” la scomparsa per devastazione e successivo riutilizzo come materiale per costruzione dei monumenti dell’antica Roma. Chiunque sia stato a Istanbul, già Costantinopoli, ricorda lo smarrimento di fronte alle esigue tracce rimaste della metropoli tardo-antica e bizantina. In un luogo dove un tempo si parlava greco, armeno, ebraico oltre a un bel po’ di latino dagli anni Venti del Novecento non c’è quasi traccia di tutto ciò: spianato dalla turchizzazione imposta con ogni mezzo.
Niente di particolare, intendiamoci. È successo e capita ancora oggi ovunque, senza eccezioni. Noi veneziani siamo degli specialisti nel ricercare i segni dei leoni scalpellati dai luoghi un tempo appartenuti alla Serenissima. Solo nostalgia? In realtà quando si esaurisce il legame concreto tra ambiente e simboli fa senz’altro capolino almeno la curiosità. I simboli perdono il loro significato originario, spesso non ne hanno più alcuno e diventano solo testimoni di un’epoca. La quale fa parte della storia a prescindere dai giudizi di qualunque tipo, politico o etico che sia. O, almeno, così succede fin quando a qualcuno per speculazioni sue non li riutilizza per mascherare sotto antiche forme, ritenute in un certo senso nobilitanti per la causa, nuovi messaggi. I quali stravolgono le radici.
Due dei casi più clamorosi del Novecento riguardano il Fascio Littorio e la Swastika. Non sfuggirà a pochi che il primo si trovi tuttora nello stemma ufficiale della Repubblica Francese. Niente di strano. Nasce etrusco quale segno tangibile dell’autorità politica e come tale si trasferisce a Roma, dove accompagna i consoli. Per questo viene assunto nel Settecento a emblema di virtù e libertà repubblicane. Una delle ragioni per cui il movimento nato in Sicilia nel 1889 e sviluppatosi sino al 1894, quando fu disciolto con la forza, d’ispirazione democratica e socialista si chiamò dei Fasci Siciliani dei Lavoratori. Mussolini se ne approprierà in seguito, trasformandolo nel cuore dell’immaginario del suo nuovo partito politico, importandolo al pari di molta sostanza ideologica e formale a partire dal linguaggio rivoluzionario, dal suo passato socialista.
Quanto alla Swastika, si tratta di un antico simbolo religioso tipico di molte culture, in particolare indoeuropee, asiatiche. Venne largamente utilizzato anche in ambito buddista, specie cinese. Ha sempre avuto valore beneaugurante e per questo incisa o dipinta sulle statue del Beato. Siamo anni luce lontani dall’utilizzo che ne fece in Europa il Nazismo nel terzo e quarto decennio del secolo scorso. Al punto che qualche anno fa una commissione mista del Gran Rabbinato d’Israele e dell’Hindu Dharma Acharya Sabha è stata costretta a ricordarne e ufficializzarne il senso autentico per evitare fraintendimenti.
Ammetto che è difficile compiere l’operazione mentale necessaria per restituire ai simboli la loro valenza originaria. Tuttavia sarebbe esattamente il compito della Ragione. Allo stesso modo, proprio lei, la Ragione dovrebbe aiutarci a rimettere su corretti binari storici azioni e personalità del passato per le quali diventa assurdo utilizzare categorie contemporanee. Mi riferisco alla furia iconoclasta che si è abbattuta sulle statue di Cristoforo Colombo, perché colonialista che ha portato allo sterminio delle popolazioni indigene, oppure di alcuni presidenti americani quali Andrew Jackson, accusato di sterminio di Nativi, o Theodor Roosevelt, in quanto raffigurato a cavallo con un afro-americano e un nativo a piedi dietro di lui. Colombo, causa prima dell’invasione europea del pacifico continente americano, è stato abbattuto a Philadelphia, Jackson non è ancora chiaro che fine farà, Roosevelt, invece, sarà rimosso. Importa poco a quanto pare che entrambi, Jackson e Roosevelt, siano passati alla storia come grandi modernizzatori dell’imperfetta democrazia americana, rendendone accessibili cariche e responsabilità a tanti che ne erano esclusi per nascita e scarsi mezzi finanziari. Neppure che il primo abbia evitato senza danni il primo tentativo di secessione della Carolina del Sud, un quarto di secolo in anticipo di quella riuscita e destinata a produrre il massacro della Guerra Civile o Guerra tra gli Stati. Quanto al secondo, è stato il primo uomo politico insignito del Premio Nobel per la Pace, ammesso che lo screditato premio svedese abbia una qualche valenza.
Vero è che entrambi, presidenti degli Stati Uniti, abbiano agito come capi militari supremi del loro paese e ne abbiano promosso e non solo spesso guidato le guerre di aggressione: sono quelle che hanno fatto “grande” quel paese. In base ai valori prevalenti della loro epoca. Macchiavelli nello scrivere il Principe aveva semplicemente fotografato la realtà dell’uomo politico, non scritto un trattato utopico. In questo sta la sua superiorità indiscutibile rispetto a Guicciardini, interessante per le informazioni sui fatti raccontati, ma patetico nelle valutazioni. La realtà, dunque, e quella del tempo in cui le persone hanno agito, pensato, scritto. Sarebbe altrimenti difficile spiegarsi l’accettazione della schiavitù da parte di San Paolo nelle Lettere. E non solo da parte sua. Dobbiamo abbattere anche le statue di San Paolo, sconsacrare le chiese a lui intitolate, cambiare nome alle vie e piazze e ai quartieri che lo ricordano? In quanto a Colombo, si tratta più che altro di un navigatore che ha commesso un errore circa la migliore rotta da seguire. Per le Indie.
La furia iconoclasta parte da un assunto che, la Ragione e la Storia, sanno perfettamente essere infondato: dividere i Buoni dai Cattivi e tracciare un solco netto tra vittime e carnefici. Sarebbe bello fosse facile distinguere, e talvolta per carità lo è, ma non sempre è così. Se portoghesi, olandesi, inglesi, francesi, spagnoli si sono dedicati con grande profitto alla tratta degli schiavi, che dire di arabi e africani che materialmente li catturavano e li vendevano agli europei, con altrettanto profitto e solo per questo? E spostandoci nel tempo e nello spazio è giusto lasciare che i Talebani, in nome di valori ancestrali e di una loro interpretazione della Parola Sacra, riducano in schiavitù la metà femminile della loro società, costringendo chiunque a seguirne le assurde regole? Qualcuno ricorda che la Guerra in Afghanistàn del 1979-89 ha la prima origine nelle riforme promosse da Nur Muhammad Taraki, tese a traghettare il paese verso la modernità? Certo, in modo alquanto brusco, non c’è dubbio, ma si trattava pur sempre di quelle che in Occidente sono considerate “conquiste” tipo emancipazione femminile attraverso personalità giuridica, diritto all’aborto e al divorzio, all’istruzione e alla sanità entrambe pubbliche al pari di servizi essenziali quali acqua, energia, trasporti etc.
Tutto ciò non significa che non esista verità possibile, ma solo che non è affatto semplice arrivare a sfiorarla. La memoria è labile per definizione, gioca anche brutti scherzi quando non passi il severo esame della Ragione, la quale è costretta a muoversi tra mille trabocchetti. Per questo il lavoro dello storico è difficile e deve nutrirsi di ogni testimonianza possibile, di qualunque provenienza sia: per setacciarla e incrociarla senza pietà. Quindi, per favore, lasciamo le tracce del passato al loro posto. Esattamente là dove sono state realizzate e nei luoghi ai quali erano destinate: così potranno essere contestualizzate, come ben sanno gli archeologi che impazziscono quando non si riesce a ricostruire la storia del ritrovamento di un reperto. Riserviamo lo sdegno politico ai vivi, in ogni caso teniamo ben a mente una lezione: per fortuna il campo di Auschwitz è ancora lì a testimoniare visivamente quanto successo. Fosse stato demolito dopo la guerra, qualche schizzato negazionista potrebbe anche far credere a generazioni dimentiche di quanto accaduto sia mai esistito. Come ben sanno i frequentatori della Storia i falsi si costruiscono così, a partire dall’assenza di evidenze. Una lezione da non dimenticare.