La prendo un po’ alla larga. Stig Dagerman (1923-54) è stato un giornalista e scrittore anarchico, redattore della rivista “Arbetaren”, periodico del SAC, vale a dire il sindacato libertario svedese più o meno equivalente dell’USI, l’Unione Sindacale Italiana. Nel 1946, Dagerman si reca in Germania dove realizza una serie di interviste e articoli, poi raccolti in un volume oggi tradotto e pubblicato in Italia da Iperborea con il titolo Autunno tedesco. Ne consiglio senz’altro la lettura. A tutti, indistintamente.
Si tratta di un resoconto delle condizioni di vita e dei sentimenti dei tedeschi durante il primo anno dalla fine della guerra. Dagerman è osservatore acuto e soprattutto privo di pregiudizi: volendo usare un termine tipico della tradizione buddista, direi “compassionevole”. Questo lo differenzia in modo radicale da tanti altri giornalisti, svedesi o no, che si sono recati in Germania nel medesimo periodo e restano scioccati dalle risposte ricevute dai tedeschi con cui entrano in contatto. I suoi colleghi, infatti, restano disgustati da quanto ascoltano e, in particolare, da una sorta di ritornello quasi universale e riassumibile nella frase “quando c’era Hitler si stava meglio”.
Dagerman non se ne stupisce affatto, perché, osserva, la fame è sempre una pessima maestra per chiunque e, in ogni caso, appare evidente che a pagare durante i processi di “denazificazione” sono solo persone insignificanti, comuni cittadini, magari solo iscritti al partito per opportunismo, addirittura gente che, semplicemente, non ha fatto nulla. Quanto ai gerarchi, tranne quelli suicidatisi al momento della sconfitta e i pochissimi processati a Norimberga, in realtà finiscono per passare indenni tra le maglie dei controlli e si riciclano senza difficoltà con i nuovi potenti.
Se ancora oggi in Germania devono fare i conti con un’estrema destra nostalgica, ultimo caso il responsabile dell’agenzia per la sicurezza interna costretto alle dimissioni per aver “coperto” personaggi e gruppi neonazisti, in fondo è proprio perché il processo di denazificazione è stato, per così dire “limitato”. Il punto di vista di Dagerman, è però interessante anche in tale materia: non s’indigna per quanto vede nei tribunali, pure ingiusti, mal funzionanti e in palese malafede, ma si chiede se esista un’alternativa: lo sarebbero, infatti, la giustizia sommaria popolare o la completa inerzia? La conclusione è no. L’unica via percorribile consiste nel cercare di far convivere dentro di noi e nella società giustizia e memoria storica.
Ciò significa fare quanto possibile per “praticare la giustizia”, con tutto quanto ne consegue, ma tenere ben presente la sua insufficienza a fornire una risposta definitiva al problema. Molti di sicuro le sfuggiranno, altrettante situazioni resteranno prive di soluzioni soddisfacenti però… bisogna proprio per questo mantenere vivo il ricordo di quanto è successo, la memoria storica, per non cadere nella trappola del revisionismo giustificazionista. Esistono una “parte giusta” e una “parte sbagliata” in senso etico e il fatto anche la “parte giusta” abbia commesso dei crimini non significa poterla in alcun modo equiparare alla “parte sbagliata”. Mai.
L’annullamento della differenza tra i due fronti, in ragione della constatazione che entrambi si sono macchiati di eccessi e crudeltà, cioè quanto l’estrema destra nazi-fascista sostiene quando invoca la “pacificazione nazionale” per seppellire colpe&orrori che hanno radice in un’ideologia basata su valori antitetici a quelli di libertà, uguaglianza, fratellanza al punto da diventare autoritaria, classista, razzista, viene radicalmente respinto: insomma, criticare Dresda e Hiroshima come puri crimini di vendetta non significa mettere sullo stesso piano Hitler, Tojo, Truman e Churchill, tanto per fare un esempio.
Ho voluto affrontare il “caso Germania” perché è del tutto speculare a quello “Italia”. Fascismo e Nazismo condividono, infatti, moltissimo: tanto sotto il profilo ideologico, con una singolare miscela di nazionalismo e socialismo, che politico. Hanno, inoltre, condiviso la medesima parabola storica. Entrambi, poi, hanno alimentato processi di nostalgia ancora ben presenti nella pancia dei rispettivi popoli. Tedesco e italiano. Con l’aggiunta da parte nostra della tradizionale smemorataggine per cui allegramente ci riteniamo in fondo “brava gente”, sempre e comunque. Invece non è proprio così. Non lo è mai stato. “Ubi solitudinem faciunt, pacem appellant (dove fanno il deserto, la chiamano pace)” scriveva in tempi non sospetti Tacito nel suo Agricola riferendolo ai romani, verso i quali tutti noi nutriamo la massima considerazione, ma che non sono certo stati esenti da svariati crimini commessi un po’ ovunque.
Roma antica in fatto di realizzazioni è di certo imparagonabile, per dimensioni e qualità, al livello francamente modesto espresso dal fascismo, resta comunque indiscutibile che, come ricordano di continuo autorevoli esponenti dell’attuale governo e in particolare il vice primo ministro Salvini, ci siano stati dei risultati anche durante il cosiddetto ventennio. Ovvio, sarebbe da rispondere, non esistono da nessuna parte al mondo periodi tanto lunghi di potere privi di risvolti positivi. Un salto nella ex Unione Sovietica dei giorni nostri chiarirebbe molte idee a riguardo. Ovunque. In Armenia, per esempio.
Con la nostalgia bisogna fare i conti: riguarda la propria giovinezza, spesso, oppure il racconto che viene trasmesso generazione dopo generazione e che sedimenta acquistando i colori del Mito. Una splendida età dell’oro esente dai mille problemi quotidiani. Per la mente rappresenta una sorta di vacanza e come in un viaggio ci si dimentica di cosa abbia davvero significato quel mondo. L’importante è stabilire che ci sia stato un momento in cui “si stava bene”. Non importa sia vero. Basta poterlo credere.
Fenomeno senz’altro comune e comprensibile, anche senza scomodare la “compassione”, che diventa grave quando viene sfruttata a fini di propaganda politica. Allora diventa pericoloso. Allora non si può solo sorridere, ma diventa necessario attivare l’unico antidoto possibile: la memoria storica. Perché il futuro non torni a essere come “quel” passato: un’età dell’incubo e non certo d’oro.