Già, scritta con la “t”, cioè in latino, perché voglio parlare sia della città che della regione: l’una e l’altra connesse non solo dalla Storia ma, soprattutto, da qualunque domani.
Oggi sono separate. Da un pezzo vivono come quei coniugi che non si sopportano, ma l’interesse spinge a convivere. Non c’è alcun bisogno di trasformare Venezia-città in qualcosa di “autonomo”, come alcuni propongono. È già un altro “mondo”. Aggiungo: lo è sempre stato.
La Repubblica Serenissima ha conquistato la Terraferma e per tre secoli ne è stata la Dominante. Dopo, mezza-capitale del Regno Italico e del Regno Lombardo-Veneto, ha continuato a vivere in un’altra dimensione. Allo stesso modo è andata durante il Regno d’Italia e la Repubblica che l’ha seguito. Da una parte Venezia, la magnifica città multiculturale con orizzonti internazionali, dall’altro “il” Veneto, una regione a lungo depressa al punto da spingere gli abitanti all’emigrazione.
Il fatto di possedere realtà urbane antiche e gloriose come Padova, Verona, Vicenza o Treviso, giusto per citarne qualcuna, non ha evitato alla già Terraferma un Ottocento ingrato e un Novecento molto difficile, almeno nella sua prima metà.
Poi, la grande inversione: “il” Veneto esplode e Venezia decade. La regione diventa uno dei motori industriali d’Italia, la città si avvia tristemente al suo presente di deserto imprenditoriale e museo a cielo aperto. Una meta turistica da guardare, consumare e da cui fuggire appena possibile. Al punto che il suo Centro Storico, su una superficie ben inferiore all’attuale ospitava tra i cento e i centocinquantamila abitanti, oggi conta poco più di cinquantamila residenti.
La Venezia di terraferma, poi, e cioè Mestre e Marghera sta subendo l’identico destino della sorella d’acqua: curioso come l’intera Venetia Marittima paia travolta dalla medesima sorte. Fato?
L’antica frattura tra Terraferma e Dogado, a quanto pare, si ripropone intatta con incredibile indifferenza al trascorrere dei secoli. A volte si potrebbe credere di essere ripiombati in piena epoca longobarda. I duchi del Friuli e di Verona assediano le lagune difese con disperato coraggio da un manipolo di milites, raggruppati in bandae e turmae, che il loro dux chiama magari drouggoi e cerca di unire in almeno un tagma. Perché parla greco e obbedisce al lontano imperatore di Costantinopoli.
Invece il tempo è passato. Forse sarebbe ora di sanarla questa divisione. C’è poco da fare, nessuna delle due parti ha un vero futuro da sola. Ognuna per la sua vocazione, sono però entrambe troppo piccole per contare qualcosa prese isolatamente.
In una recente conversazione all’Ateneo Veneto, dove si parlava di Veneti per sempre libro per altro di viaggi che ho dedicato all’intera regione, Alessandro Marzo Magno, post fattore del volume, ha sollevato ancora una volta il problema della sotto-rappresentanza politica, a livello nazionale, del Veneto. Questione antica, che solca il Novecento e pure il secolo precedente.
Pensiamoci un attimo: quanti e quali statisti ha mai espresso la regione nel suo complesso? Non scordiamoci, per esempio che il Trentino ha avuto, tanto per fare un nome, Alcide de Gasperi: della sua opera beneficia ancora.
Uomini politici importanti? L’ultimo presidente del consiglio, pure l’unico, è stato Mariano Rumòr. Un confronto? La Toscana ha avuto Giovanni Spadolini, Carlo Azeglio Ciampi, Lamberto Dini, Enrico Letta e Matteo Renzi… certo, mi si dirà che la Liguria neppure uno!
L’ultimo ministro di rilievo? Gianni de Michelis. Questo perché non sono mai riuscito a capire quanto conti sul serio Renato Brunetta, mentre è chiaro che Nicolò Ghedini sia più che altro l’avvocato di Berlusconi. In ogni caso, le decisioni politiche si prendono altrove.
Assistiamo a fatti curiosi. Se la Lega è nella regione Veneto prima forza politica, addirittura egemone in molte aree, non ci sono “leghisti” veneti che occupino o abbiano mai avuto una qualche posizione di rilievo a livello sovraregionale. Lo stesso Zaia è stato appena ministro dell’agricoltura o delle risorse agricole o come diavolo mai si chiami ora. Tutto qua.
La Lega è a trazione “lombarda”, è evidente: da Bossi a Maroni, da Calderoli a Salvini e mi fermo qua. Eppure il Veneto è il suo vero, autentico bacino di voti.
Pazienza per i rappresentanti di altri partiti, che non hanno la stessa importanza elettorale, anche se Forza Italia ha conosciuto giorni di grande consenso, ma perché mai i veneti contano così poco? Nell’ultimo governo Gentiloni neppure un ministro. A meno che non si vogliano scomodare le evidenti radici venete di Pier Carlo Padoàn, nomen omen, e Beatrice Lorenzìn. Entrambi nati a Roma.
La vera star internazionale del territorio è sempre stato il sindaco di Venezia. Certo, con Massimo Cacciari è stato raggiunto l’apice della visibilità: la caratura intellettuale della persona e la sua capacità d’interpretare il ruolo fuori dagli schemi hanno avuto la loro importanza. Quando, però, si è presentato per concorrere alla carica di presidente della Regione sappiamo come è andata a finire.
“Essere” il primo cittadino di Venezia, dunque, ha giocato la sua parte. Chiunque sia sindaco della città lagunare gode, solo per questo, di una visibilità internazionale quasi impensabile. Il che non significa affatto godere, però, di pari voce politica.
Lo stesso capita al cosiddetto “governatore”, in realtà presidente di regione: disporre di una solidissima base elettorale, appartenere per dieci anni alla stessa maggioranza che ha governato il paese, non si è tradotto in alcun modo in peso politico adeguato.
Esiste, dunque, un problema di fondo. E questo è dato dal permanere delle divisioni interne alla Venetia. Innanzitutto a causa della frattura mai composta tra la città-capoluogo, che aspira sempre a essere capitale di un mondo spesso solo immaginario, e la Terraferma, orfana di un vero centro politico: un odio-amore dal quale si genera una forzata “convivenza” incapace di evolvere allo stadio di vera unione, d’intenti e di azione.
In questo senso rema contro quella che nel libro citato, Veneti per sempre, ho chiamato identità plurale. Vale a dire, la peculiare tendenza degli abitanti a riconoscersi in sensibilità di ambito comunale piuttosto che almeno regionale. Si tratta di una sorta di municipalismo con antiche e nobili radici e che rappresenta senz’altro una grande ricchezza culturale, spesso diventa risorsa economica. A livello di peso politico, però, si traduce in fragilità strutturale.
Si tratta, giusto per capirci meglio, dello stesso problema capace di frenare la tutela degli interessi italiani in Europa: il valore aggiunto del localismo si tramuta in pericoloso frazionismo interno, che indebolisce l’intero sistema-paese in ambito continentale.
Insomma, divisi si perde, sempre. Venezia e “il” Veneto hanno una sola strada davanti, diventare “la” Venetia, a vantaggio di tutti i veneti. Perché sono questi, i veneti, ad averne bisogno. Così come a tutti noi serve l’Italia. Già nell’Europa di oggi, non solo di domani.