La questione dell’identità veneta è da anni al centro di molti dibattiti a più voci. Troviamo tanto chi ne sia sostenitore convinto, quanto chi giunga a negarla del tutto. Nel mezzo, un’infinità di sfumature. Personalmente, indago l’argomento sin dai miei primi libri pubblicati, parlo dei romanzi Donne all’asta e La voce della Dea, quindi partecipo alla discussione in forma scritta da allora: anni 2002 e 2003.
Di recente, il 16 novembre per l’esattezza, la giornalista della Rai Maura Bertazzon è tornata a interrogarmi sull’argomento a margine di un’intervista che riguardava Veneti per sempre – le storie e l’identità di un Continente, il mio ultimo volume pubblicato. In tempi di referendum per l’autonomia, richieste d’indipendenza, continue dichiarazione di morte di qualsiasi sentimento di appartenenza nazionale mi sembra interessante tornare sull’argomento.
Faccio un’osservazione preliminare. Cosa significa “identità”? Semplificando, diciamo che si concretizza nella concezione che ognuno ha sviluppato di sé stesso. Con la parola “ognuno” possiamo intendere sia il singolo, “identità individuale”, sia l’insieme di persone raggruppate in una comunità, “identità collettiva”.
Singolo e comunità la costruiscono, però, nello stesso modo: attraverso la selezione di valori di base non negoziabili e una serie di esperienze maturate nel tempo. Valori ed esperienze, dunque, producono, se così posso esprimermi, una determinata identità.
I primi, però, sono conseguenza di scelte, le seconde sono fatti accaduti. Il frutto di tutto ciò non è per nulla scontato. Individui e gruppi rielaborano in modo soggettivo entrambi ed è da tale processo che germoglia il senso di identità.
Qualcuno avrà osservato che nel mio ragionamento manca del tutto l’idea contino qualcosa sangue&suolo: non è un caso. Io ritengo che chiunque possa aderire a certi valori non negoziabili e condividere la rielaborazione dell’esperienza. La quale nel medio-lungo periodo altro non è che la Storia. L’identità, quindi, appartiene molto al campo della volontà e per nulla o, per meglio dire, assai poco a quello della nascita: posso sentirmi europeo senza essere nato nel Vecchio Continente e neppure discendere da europei. Vale lo stesso per l’Italia e gli italiani, il Veneto e i veneti.
A Maura Bertazzon ho risposto, quindi, sostenendo che un’identità veneta in quanto tale, definibile secondo le coordinate appena date, non esiste. Non è neppure mai esistita. Al suo posto abbiamo molte identità per molti veneti. Ho infatti scomodato il concetto di “identità plurale”, varia e articolata almeno quanti sono gli abitanti, e proprio per questo tendenzialmente accogliente e inclusiva.
Non c’è “il” Veneto, insomma, ma “tanti” veneti, da qui il titolo del libro Veneti per sempre, che scelgono di esserlo e di rimanere tali indipendentemente da chi siano nati e persino da dove vivano: non per caso il libro parte dal Brasile, dal Rio Grande do Sul, dove esiste l’unica realtà al mondo che abbia quale lingua ufficiale riconosciuta una forma particolare di veneto.
Laggiù il veneto nella variante riograndese si parla, si studia, si legge, si ascolta alla radio e in televisione. È di sicuro veneto, per grammatica e sintassi, con svariati imprestiti portoghesi e una pronuncia figlia dei numerosi apporti provinciali e, spesso, comunali ricevuti dalle diverse ondate migratorie. Una lingua di “migranti”, appunto.
La cosa mi spinge a una riflessione: nel dibattito la questione della lingua è centrale e spinosa. È noto come nel Veneto-regione Mondo, come lo chiamo nel libro, esistano varianti assai diverse, spesso in modo radicale, nel modo di parlare e scrivere. Il compianto Manlio Cortellazzo, tra i maggiori studiosi dell’argomento, aveva infatti concluso che per avere una qualche forma di “lingua veneta standard”, unificata così come lo è l’italiano, bisognerebbe tagliare la testa al toro e sceglierne semplicemente una.
Già, ma con quale criterio?
La risposta di Manlio Cortellazzo fu semplice: quella più diffusa. Criterio democratico, mi viene da dire. Peccato che se ci basassimo su questo, allora dovremmo metterci tutti a studiare la versione in uso tra le province di Vicenza-Padova-Rovigo, cioè l’area definita spesso “pavana”. Credo che non sarebbe accettato con facilità, per esempio a Venezia. Nemmeno a Treviso o Verona, comunque.
La lingua o “le” lingue, quindi? Il Veneto o “i” Veneti? A Maura Bertazzon ho senz’altro risposto “al plurale”. Ce lo racconta anche la Storia, del resto. Non per nulla l’Italia è stata la culla del movimento dei liberi Comuni: il municipalismo ha una lunga e gloriosa tradizione. Al punto che nel 1848 la parte repubblicana del movimento nazionale fu all’inizio senza indugi federalista. Soltanto in seguito si piegò, pur di realizzare l’Unità, ad abbandonare sia il federalismo che l’opzione repubblicana. E fu un male.
Io credo che parlare di identità veneta come di realtà monolitica non abbia senso. E sia sbagliato ricorrere alla coperta, davvero corta, della storia di Venezia Serenissima: i cui confini quasi combaciavano con la X Regio augustea. Si tratta di un paravento. La repubblica di Venezia fu tutto meno che uno stato centralizzato. Mancava addirittura di un unico sistema di pesi&misure, di una fiscalità uniforme, di un’amministrazione unitaria.
Le varie realtà storicamente preesistenti trovavano nelle figure dei rettori e podestà veneziani, attenzione! Veneziani e non veneti, solo il minimo di coordinamento necessario. Non per niente, sarà tale debolezza strutturale ad accentuarne la decadenza fino al crollo finale.
Fu proprio tale sua caratteristica a permettere alle tante dimensioni municipali di continuare a esistere e di durare, in fondo sino a oggi. Torniamo, dunque, all’affermazione di partenza: non un solo Veneto ma tanti Veneti, così forgiati da scelte&necessità. Tanti Veneti quanti i suoi abitanti. Quanti sono e saranno domani. Un Continente, appunto, mosaico di individui e municipalità in continuo divenire, cosmopolita al pari della sua città-simbolo, Venezia, arcipelago&mercato poliglotta e ponte tra Mondi.
Questa la vera identità e quella che mi piace.