Una delle notizie di questo dicembre che segna il passaggio tra vecchio e nuovo anno, acquistando così un forte valore simbolico, è la legge regionale del Veneto che sancisce l’esistenza di una realtà etnico-linguistica finora dimenticata: i veneti, appunto.
Il testo originario della legge è stato alquanto emendato dal momento della sua presentazione da parte di quattro piccoli comuni, ma in buona sostanza ha conservato l’impianto originario di base. E quale sarebbe?
Se non ho compreso male, si parte dalla considerazione che i veneti presentino tutte le caratteristiche di una nazione, a cominciare dalla lingua per finire con una storia lunga e importante incarnata da uno stato, la Serenissima repubblica di Venezia, dalla durata così estesa da risultare a tutt’oggi la realtà politica rimasta più a lungo indipendente al mondo.
Proprio alle tradizioni di questo stato i promotori si riallacciano in modo diretto. Dall’antica repubblica hanno ripreso tra l’altro molti simboli. Un regalo di Natale per tutti i veneti?
Da anni nella regione agiscono singoli, gruppi, associazioni e formazioni politiche che hanno sollevato la questione chiamata per semplicità dell’”identità veneta”, arrivando a formulare proposte, assai diverse, per tutelarla e permetterle di sostenere la forza d’urto della globalizzazione. È fuori di dubbio che una sgradita conseguenza del meticciato culturale creato da questa, la globalizzazione, consista nell’emarginazione fino alla distruzione delle realtà particolari e minoritarie. Succede ovunque, quindi anche nel Veneto.
La domanda che mi pongo, però, è: esiste davvero una nazione veneta? E se sì, qual è? Perché tutto parte e finisce qui.
Io sono convinto che la nazione veneta esista. Sia formata da un numero di individui che è difficile valutare con precisione ma, comunque, sia nell’ordine dei milioni. Sono anche dell’idea che non solo chi risieda nel Veneto possa sentirsi veneto, per cui capita un quasi paradosso: i veneti fuori dal Veneto con ogni probabilità sono più dei residenti nell’attuale regione.
Fatta questa premessa, necessaria a sgombrare il campo da qualche pregiudizio, vediamo però di definirla meglio questa “nazione” veneta.
Il concetto di nazione prevede nell’immaginario collettivo l’esistenza di una comunità di individui che si sentano legati da comuni radici culturali, storiche, linguistiche. È noto, però, come alla parola “nazione” si siano associate nel tempo altre, per così dire, “qualità”.
Nel Medio Evo con il termine si tendeva a identificare semplicemente i parlanti una medesima lingua. Un bell’esempio è fornito dall’Ordine dei cavalieri di San Giovanni dell’Ospedale: i confratelli venivano e sono tuttora raggruppati per “nazioni” o “lingue”. Lo stesso accadeva nelle varie città con gli studenti delle Università, con i mercanti e i loro fondaci in giro per l’Europa e il Mediterraneo.
Dunque, un tempo il fattore linguistico risultava predominante. Non è lo stesso oggi, però. Al punto che un filosofo come Jürgen Habermas, è arrivato a considerare tale aspetto irrilevante. Secondo la sua proposta, infatti, per considerarsi della medesima nazione non ha alcuna importanza il fatto di possedere tutti o solo alcuni elementi reali, quali lingua e storia appunto, di comunanza effettiva. Possono dirsi della medesima nazione tutti quelli che sentano di condividere lo stesso “patto costituzionale”. Si riconoscano, cioè, negli elementi di fatto e, spesso ma non sempre, giuridici alla base di un certo organismo politico. Io aggiungerei sociale.
A questo punto, infatti, di solito si tira in ballo lo stato, tuttavia io non credo affatto che la forma-stato debba per forza esaurire lo spettro delle opzioni politiche possibili. Anzi.
Jürgen Habermas è soltanto uno dei tanti pensatori, l’elenco è quasi infinito ormai, che da tempo hanno messo in soffitta l’idea che “nazione” coincida per forza con un qualche elemento dato a prescindere dal singolo individuo: sangue, terra, lingua, tradizioni, storia etc. La vera svolta, dunque, è di collegare la nazionalità del singolo al concetto di “scelta”. In sostanza, non si “nasce” di una certa nazionalità ma lo si diventa. In qualche modo. La via maestra, però, è tracciata dalla volontà: io devo volere appartenere a una nazionalità invece che a un’altra.
Quindi, veneti si può diventare? La risposta sembra essere di sì. Basta condividere una serie di valori, volerlo essere e allora ci si può dichiarare veneti.
A questo punto, però, pare non essere più nemmeno necessario “parlare veneto”. La nazione veneta esiste a prescindere da qualunque elemento legato alla tradizione, perché se ci concentriamo sull’aspetto “cultura” bisogna anche precisarne il significato. Io preferisco la definizione data a suo tempo da George Mosse: «mentalità suscettibile di diventare stile di vita». Ovvio che la si possa esprimere in ogni parlata esistente.
Del resto, mi sembra importante recuperare l’altro aspetto che la legge regionale sottende. Cioè quello relativo alla conoscenza del proprio passato. Da questo punto di vista, purtroppo, la legge non fa alcun passo in avanti. Concentrata sull’aspetto linguistico, si è dimenticata che ogni cultura si nutre soprattutto di storia. E troppe volte la conoscenza della storia veneta è approssimativa. Giusto per usare un eufemismo. Di sicuro ci sono state intenzionali dimenticanze da parte di chi, penso a istituzioni come la scuola, avrebbe dovuto preoccuparsi di una corretta trasmissione del passato, di tutto il passato. Vero è che anche tra i volenterosi innamorati dell’antica Serenissima circolano miti e leggende preoccupanti. A partire proprio dall’aspetto linguistico: perché è ben noto che mai il veneto, sempre nella variante del veneziano comunque, fu la lingua della repubblica, la quale scrisse in latino, nel volgare in uso nelle lagune, infine decisamente e solo in italiano.
Mi viene in mente che la repubblica di Corea, al fine di promuovere la conoscenza della propria cultura da anni ha un programma di finanziamento di corsi universitari di coreano. In Italia e non solo. Per non parlare della Cina, è ovvio. Ecco, forse sotto l’albero sarebbe stato bello trovare questo: il finanziamento regionale per ripristinare il corso di studi sulla storia di Venezia che Ca’ Foscari ha soppresso anni fa. Se proprio fosse stato possibile, visto che quel corso si concentrava sull’Età Moderna, magari allargandone gli orizzonti o prevedendo il finanziamento di altre cattedre.
Lo stesso mi sarei aspettato di trovare programmato a livello di scuole superiori, magari anche di medie. Credo si dovrebbe riuscire a trovare una qualche formula per cui corsi di storia veneta si potrebbero tenere con regolarità un po’ ovunque. Questo mi sembra un modo efficace per trasmettere una corretta conoscenza del passato, facendo crescere la pianta di una vera “identità veneta”. Fondata non su una pretesa linguistica, bensì sulle vere basi di ogni vera “nazione”: i valori condivisi di una cultura comune, cioè di “una mentalità suscettibile di diventare stile di vita”. E i valori uno li sceglie perché importanti. Indipendentemente da dove venga e che lingua parli.
In tutta onestà, sotto l’albero mi sarebbe piaciuto trovare qualcosa del genere piuttosto che i cartelli stradali bilingui ma, si sa, Babbo Natale porta ciò che vuole. Io, però, intanto provo a scrivere i miei desideri, hai visto mai… in fondo “i vovi xe boni anca dopo Pasqua”, resto ottimista. In qualunque lingua del mondo.